• Diario d'ascolto
  • 25 Agosto 2019

    SULLA PISTA DEGLI INDIANISTI

      Carlo Piccardi

    Sicuramente il primo contatto degli europei con la musica americana avvenne all’ascolto della Sinfonia “dal nuovo mondo” (1893) di Antonin Dvořák che era sbarcato nel 1892 a New York per dirigervi il neocostituito conservatorio. Se il grande compositore boemo, assediato dai giornalisti, parlò spesso del valore delle melodie dei negri a cui si era ispirato (“Vi scopro ciò che è necessario per far fiorire una grande e nobile scuola nazionale”) è però la musica degli indiani quella che nella sua sinfonia vanta una presenza maggiore. Il suo secondo movimento si ispira dichiaratamente al popolare poema di Longfellow (Hiawatha) mentre lo scherzo, nel suo incitato galoppare, rimanda a feste e a danze indiane nella foresta. Il primo sentore musicale d’America non venne quindi dal ritmico e fragoroso prorompere delle espressioni degli ex schiavi negri (ragtime, jazz, ecc.), che avrebbero conquistato l’Europa solo due decenni dopo, bensì da manifestazioni più flebili e lontane che stimolavano la riflessione sulla natura selvaggia ai confini della ‘civiltà’.

     DVORAK


    DAL NUOVO MONDO
    Antonin Dvorak e frontespizio della sua "Sinfonia dal Nuovo Mondo"

    La prima tappa della ricerca sulla musica degli indiani si identifica in Theodore Baker, autore di una tesi di laurea conseguita a Lipsia nel 1880 sui canti dei Seneca. Altre ricerche seguirono a opera di Francis La Flesche, Natalie Curtis, Frederick Burton, J. Walter Fewkes, Alice Fletcher, Benjamin Ives Gilman, Frances Desmore e altri. Alle trascrizioni di Baker e a quelle dei ricercatori che seguirono le sue orme si ispirano i brani intitolati alla vita indiana di vari compositori che a volte, senza nemmeno spostarsi dalla città, diedero forma in termini musicali a quadri di vita dei pellerossa.

    INDIANO E BISONTE

    Suscitata nell’ultimo decennio del secolo scorso e protrattasi fin verso il 1910, la stagione degli ‘indianisti’ subì l’ipoteca del modo ottocentesco di lettura di una realtà esotica.
    Il modello era infatti quello del pezzo caratteristico, di un chiuso momento contemplativo, sollecitato a cogliere il particolare, di tradurre di quella realtà l’aspetto cosiddetto ‘poetico’, È il caso di Edward Mac Dowell (1861-1908), autore tra l’altro di una Indian Suite per orchestra, il cui Indian Idyl, sebbene si distingua dal modo ornato in cui un compositore europeo l’avrebbe avvolto e miri all’essenzialità e alla semplicità programmatica, si svolge nel quadro di un’estetica che sovrappone la soggettività dell’artista al modello della sua ispirazione.

    EDWARD MAC DOWELL
    Edward Mac Dowell

    A questo contesto appartiene anche George Templeton Strong (1856-1948) il quale, oltre ad aver stretto amicizia con Mac Dowell ed essere stato come lui formato in Europa, dal 1911 visse prevalentemente in Svizzera (a Ginevra), ciò che, nella distanza, accentuò il carattere di lettura esotica a cui sottopose le composizioni che si richiamavano al mondo degli indiani (la suite per pianoforte Au pays des Peaux-Rouges del 1918, l’Invocation des Peaux-Rouges per due pianoforti del 1919 e An Indian Chief’s Reply per voce e pianoforte del 1926), non esente dall’empito drammatico che riconosciamo come caratteristico della scuola pianistica di derivazione lisztiana con cui fu in contatto.

    Non sfuggì a questi condizionamenti perfino una figura quale quella di Charles Wakefield Cadman (1881-1946), il quale (conquistato alla causa indianista attraverso la lettura delle pubblicazioni di La Flesche e della Fletcher) nel 1909 svolse in proprio una ricerca registrando sul campo canti degli Omaha e della tribù Winnebago spingendosi fino all’Arizona e al Nuovo Messico. Tra il 1904 e il 1923 si presentò ripetutamente in conferenze-recital negli Stati Uniti e in Europa assistito dalla cantante Tsianina Redfather: più che un ricercatore egli fu quindi un protagonista, capace di sfruttare abbondantemente le tematiche indiane anche in opere teatrali (Shanewis nel 1918, The Sunset Trail nel 1922). Fu forse l’indianista che più si pose il problema della mediazione tra la cultura primaria degli indiani e la cultura dell’uomo bianco, il più disposto al compromesso in una situazione dove ciò si imponeva. Lo dichiaravano esplicitamente le sue scelte, in primis il titolo della sua raccolta pianistica del 1912, Idealized Indian Themes. Non vi è inganno: vi è invece il riconoscimento dell’impossibilità della trasposizione fedele del messaggio originale. Non è il tema indiano riportato che viene sottolineato, bensì il processo di mediazione del compositore. L’ambito è ancora sempre quello del pezzo caratteristico, con maggiore accentuazione dei suoi aspetti esornativi rispetto a quanto avrebbero fatto gli altri indianisti: i vari modi di arpeggiare sono usati in lungo e in largo senza timore di far pesare la componente pianistica sull’idea di canto a cui il pezzo allude.

    AMERICAN SONGS CADMAN

    Al di là di chi intendeva la dimensione ‘poetica’ come il solo mezzo per abbreviare la distanza tra la civiltà dei bianchi e la ‘primitività’ indiana, vi fu chi credette invece a un recupero più organico della loro musica. Arthur Farwell (1872-1952), pur essendo stato formato in Germania alla scuola di Humperdinck e di Pfitzner ed essere stato allievo a Parigi di Alexandre Guilmant, fu colui che maggiormente riuscì a liberarsi dai modelli europei. Lo indica la sua stessa biografia. Nel 1901 fondò la Wa-Wan Press (dal nome di una cerimonia tribale degli Omaha) allo scopo di sostenere i giovani compositori americani che non trovavano credito presso gli editori affermati. Questa fu più di un’iniziativa editoriale; si trattava di pubblicazioni in forma di periodico, provviste di introduzioni programmatiche che rappresentavano un momento di presa di coscienza d’identità musicale americana in tutta la sua vasta articolazione. Egli non arrangiò solo canti indiani, ma anche quelli delle comunità ispaniche, dei cow-boys, dei negri e dei folksingers anglo-americani. Inoltre compose musiche per cortei, per spettacoli teatrali popolari e per esecuzioni musicali di massa all’aperto.

    ARTHUR FARWELL CON NATIVO
    Arthur Farwell con nativo americano

    Farwell è meno raffinato di Mac Dowell: lo è dichiaratamente, programmaticamente. La brevità stessa delle American Indian Melodies lo dimostra: egli rifuggiva dall’idea di sfruttare i temi indiani in funzione di un pezzo pianistico autonomo. I suoi pezzi durano quanto dura un tema indiano a cui si ispirano. È come se volesse lasciar parlare direttamente la natura in un atteggiamento di spettatore non coinvolto, di cronista musicale. È una posizione che non ha riscontro nella musica europea dove il popolare è sempre stato il punto di partenza per operazioni sovrastrutturali.  

    Altrettanto esemplare è l’esperienza di Harvey Worthington Loomis (1865-1930), allievo di Dvořák, il quale usò le trascrizioni della Fletcher di melodie Omaha per comporre le Lyrics of the Red-Man. L’umiltà di ‘cronista’ musicale si ritrova anche in Loomis, il quale nell’edizione a stampa fa precedere i brani della suite dal tema originale indiano in forma di epigrafe. Sennonché spesso più che uno sono due i temi chiamati in causa in un singolo pezzo, temi di significati diversi che nella situazione originale non sarebbe stato possibile abbinare, come invece avviene nella suite. Il fatto è che qui servono da base all’organizzazione di una forma pianistica da concerto che, per quanto ridotta nelle pretese (per la discrezione con cui l’apparato d’accompagnamento sorregge la trasposizione pianistica delle melodie), si afferma come tale.

    LYRICS RED MAN

    A questo stadio di essenzialità è quindi possibile toccare il limite della ricerca degli indianisti, destinati a scontrarsi con le resistenze ‘culturali’ di uno strumento (il pianoforte) carico di memoria e di storia occidentale anche nella più impercettibile risonanza, e d’altra parte con un modello musicale (quello dei pellerossa) totalmente sviluppato al di fuori del sistema europeo. La lontananza da quel mondo in verità è tradita già negli scritti dei ricercatori. Gilman, ad esempio, lavorando sui canti degli indiani Pueblos trascritti da Fewkes, giunse alla conclusione che si trattasse di una musica non ancora basata su una scala, bensì su nuclei di note da cui avrebbe preso corpo la scala relativa, come se gli intervalli non fossero ancora fissati nell’orecchio del cantante.
    Questa idea, in seguito giustamente contestata, di una scala in formazione rivela la difficoltà di penetrare in un mondo musicale alternativo, provvisto di leggi autonome. Molti sono infatti gli elementi della musica indiana che sfuggono alle abituali categorie di giudizio valide per la musica di tradizione europea. Al ritmo, che vi detiene un ruolo primario, fa riscontro la scarsa varietà delle melodie, che risultano contratte in giri di poche note. Se a ciò aggiungiamo il ridotto senso dell’armonia (il canto si svolge praticamente a solo o all’unisono) avremo un quadro che mostra il grado di incompatibilità tra quella tradizione e l’impianto musicale colto europeo. Inoltre, come ogni musica etnica, la musica degli indiani d’America lega i suoi significati alla maniera esecutiva, all’intonazione vocale, ricca di portamenti da una nota all’altra, aperta all’uso di suoni nasali e del falsetto, a cui era riservata un’importanza tale che le parole stesse del testo cantato potevano parer povere se pronunciate distintamente, cosicché venivano spesso modificate in funzione di una resa sonora più ossequiente verso la melodia e più piacevole all’ascolto.
    Non bisogna inoltre dimenticare che le voci e gli strumenti a percussione d’accompagnamento spesso non seguono la stessa unità metrica: mentre la prima si adatta alla prosodia del testo i secondi battono rapidamente e senza accenti.

    INDIANI COVER

    Tutti questi elementi, posti di fronte al pianoforte che, vuoi per comodità vuoi per scelta, fu lo strumento impiegato dagli indianisti per le loro operazioni di recupero del patrimonio musicale primitivo d’America, evidenziano immediatamente la distanza tra le concezioni che guidano due mondi contrapposti. I problemi posti dallo strumento a intonazione fissa e secondo la scala temperata in verità si manifestano già in un pezzo quale la Ghost Dance of the Zuñis di Carlo Troyer (1837-1920), dove l’autore prevede puramente e semplicemente, in un momento cruciale della composizione, l’introduzione della sonorità di un gong: più precisamente, in mancanza dello strumento aggiuntivo, egli raccomanda la ricerca dell’effetto equivalente, percuotendo l’ottava più bassa della tastiera nella simultaneità di tutte le sue note (il cluster che ne risulta è lì a denunciare il limite fisico dello strumento nel riprodurre categorie sonore estranee agli scopi per i quali fu concepito).

    HIAWATA

    Da una parte quindi la tecnica pianistica degli indianisti sviluppa l’attenzione per il timbro, per la dinamica, per gli accenti, per tutti quei parametri in grado di assicurare alla trascrizione la flessibilità del modello.Ne deriva spesso anche una scrittura che affronta la tastiera in modo poco ortodosso, con divaricazioni, passaggi incrociati, ecc. richiesti dall’uso di intervalli di decima e frequentemente della poliritmia. Dall’altra, rimanendo tali risorse insufficienti a riprodurre fedelmente quel mondo sonoro, esse venivano usate con intento metaforico, allusivo: dove non era possibile la riproduzione era la forza poetica del suono a essere chiamata in causa allo scopo di compensare la distanza dal riferimento.
    L’imporsi della visione poetica del mondo degli indiani in verità veniva a corrispondere alla funzione che le loro melodie detenevano in cerimonie che erano il riflesso di leggende e miti, che la musica contribuiva ad alimentare nella loro valenza soprannaturale. Ciò non toglie che la poeticità del repertorio degli indianisti, date le premesse, si svolgesse all’interno di bozzetti, di chiusi momenti d’ispirazione, inquadrati nella consuetudine del pezzo caratteristico a vincolare profondamente il loro atteggiamento ad estetica di derivazione romantica, tutt’al più con riferimento al livello di coscienza impressionistica (com’è il caso di Mac Dowell), comunque di evidente impianto eurocentrico.
    In pratica essi agirono in un sistema di separatezza, portando la loro ricerca sul mondo degli indiani anche a un notevole grado di profondità, ma continuando a trattarlo come un mondo a parte.

    Le idee degli indianisti non poterono quindi avere un reale sviluppo come viceversa fu il caso della musica afroamericana, la quale si contrappose sì alla musica dei bianchi, ma che sorse nel seno stesso delle loro città, riuscendo quindi a interpretarne problemi e aspirazioni.

    I conti con quei capitoli di storia musicale americana non si possono tuttavia considerare chiusi. L’apparente incolmabile distanza tra la civiltà bianca e il modo di vita degli indiani si riduce di molto se pensiamo al significato che per quei due mondi contigui e separati rappresentò la natura. Longfellow, nel suo epico poema, racconta come Hiawatha apprendesse dalla nonna a capire le mille voci della natura, a leggere l’esistenza in modo spirituale, al di là dell’apparente realtà.

    TRUDEAU
    Henry David Thoreau

    Su un altro piano la stessa direzione era indicata dalla filosofia dei trascendentalisti americani (Thoreau, Emerson, ecc.), con la fede (quasi religiosa) nella sostanziale bontà dell’uomo, e attraverso l’introspezione solitaria (a contatto con la natura al di fuori delle città) intesa come strumento di conoscenza. Ecco quindi che attraverso Charles Ives, profondamente imbevuto delle idee dei trascendentalisti, e le espressioni dei minimalisti odierni (Steve Reich, Terry Riley, Philip Glass, ecc.) si crea un ponte che, nella ricerca dell’origine naturale del suono, rispecchia la stupefazione, l’attonita resa a forze superiori che erano anche quelle dei pellerossa e del significato rituale da loro assegnato alla musica.

    Koya

    Non è forse ritualità il ritorno dei minimalisti americani (contrapposti all’avanguardia europea) al compositore-esecutore e a una musica concepita solo per l’hic et nunc di un determinato concerto? Non sarà quindi probabilmente un caso il fatto che la musica di Philip Glass inondi da cima a fondo di suoni incantatori la colonna sonora del film di Godfrey Reggio il cui titolo (Koyaanisqatsi) corrisponde a un programmatico detto indiano: “If we dig precious things from the land, we will invite disaster” (“Se sottraiamo le cose preziose alla terra, indurremo la calamità”).

    DESERTO MONUMENT VALLEY FINALE