Teatro dell’anima
Della Passione secondo Matteo Hermann Abert ha lasciato scritto che essa sarebbe stata «l’ultima testimonianza vivente di un modo di sentire in cui arte e religione erano ancora la stessa cosa e in cui simile alleanza era posta al servizio dell’educazione etico-religiosa del popolo».
Se ciò è vero, e considerando come questo aspetto si possa estendere all’intero arco delle composizioni bachiane, è senza dubbio anche questa una delle motivazioni dell’esautoramento di Bach ad opera delle correnti musicali dominanti del Settecento. Non fu solo quindi una questione di linguaggio allora a rendere Bach «incomunicabile» ai contemporanei: incomunicabilità di cui rese conto J. Adolf Scheibe il quale, nel giornale da lui pubblicato (Der critische Musicus) nel 1737 qualificava la musica bachiana come «troppo difficile».
Il teorico lipsiense deprecava in particolare il fatto che in Bach «tutte le parti hanno la stessa importanza melodica, cosicché non si può ravvisarne la principale», allineandosi alla maniera affermata del tempo in cui l’ideale polifonico bachiano non trovava ormai più giustificazione. Nella condizione di emarginazione di Bach vi era invece anche una motivazione determinata dalla funzione, mirando la sua musica (e quella delle cantate e delle passioni in primo luogo) a mantenere e a rinsaldare il dettame antico che il protestantesimo aveva sviluppato ancor più conseguentemente della chiesa cattolica, secondo il quale essa musica doveva essere umile veicolo della parola del Signore e strumento della devozione collettiva, tenuta lontana dal prorompere di espressione sovraccarica in virtù dell’affermazione del proprio equilibrio interno concepito come metafora di superiore ordine teologale.
Che il musicista mirasse a questo principio è evidente soprattutto nelle passioni, dove la sua scelta percorre la strada esattamente opposta all’evoluzione del tempo la quale, avendo assimilato la tradizione antica della passione alla forma moderna dell’oratorio, in ossequio all’esigenza di articolazione sempre più libera (di arie, corali e cori) aveva vieppiù sostituito al testo evangelico parafrasi fiorite, figurate e in rima del racconto della morte del Cristo, Bach ripristina l’originale testo neotestamentario come ossatura del discorso, regolando gli interventi di commento soggettivo negli spazi riservati (corali, ariosi, arie). E se nella Passione secondo Giovanni egli si era valso in parte dei versi del poeta amburghese Brockes (libretto che servì da base alla composizione di numerose passioni del tempo), nella Matthäus-Passion ristabilì definitivamente il primato di una concezione severa, organica e unitaria rispetto al compito liturgico.
È infatti significativo il fatto che nel manoscritto originale la parte dell’evangelista sia stata trascritta con inchiostro rosso, nella convinzione del primato del verbo sacro su tutto quanto nel progetto compositivo poteva confluire come testimonianza di fede individuale. E non può essere un caso che l’inizio ufficiale della «Bachrenaissance» sia fatto risalire alla riesumazione dell’opera da parte di Mendelssohn (Berlino 1829), del capolavoro cioè in cui il romanticismo non solo cercava il modello di una storica grandezza, ma in cui nel contempo non poteva sottrarsi al fascino dell’irripetibile compenetrazione di religione e arte su cui esso era appunto fondato, concetti che la cultura dell’Ottocento non era più in grado di saldare in organica funzione e a cui quindi nostalgicamente guardava come a esperienza perduta.
Non per niente, di fronte all’impossibilità pratica di una sintesi, a questo livello sarebbe stata la teoria a prendere il sopravvento nel Romanticismo. Ciò a cui Wagner mirava nella sua intuizione di opera d’arte totale, ciò che egli esaltava nell’epica funzione della tragedia greca riproposta a modello, altro non era se non l’identificazione di una base religiosa, di una proiezione di fede che conciliasse l’aspirazione individuale con un solido progetto comunitario, nella mobilitazione di tutte le risorse creative, non dell’individuo creatore solamente, bensì dell’intera collettività degli spettatori mediati dal coro a livello di celebranti.
L’utopia wagneriana, si sa, rimase tale e impraticabile in un’epoca in cui la cultura, affermando i valori laici, aveva irreversibilmente compromesso l’armonia del rapporto tra individuo e tradizione. Ma da tale vagheggiamento non poteva andare esente l’interesse dell’Ottocento per il Bach delle passioni appunto, di quelle opere cioè che, svolgendo il dramma del Cristo all’interno di una severa e corretta celebrazione liturgica, si presentavano come la realizzazione più compiuta e recente di teatro epico religioso. È lo stesso Abert a portarci a queste considerazioni, pur dissociandosi egli da tale giudizio su Bach a cui il grande musicologo nega «l’istinto del vero drammaturgo, quel bisogno di oggettivare pienamente il proprio sentire».
Tali asserzioni potrebbero essere giustificabili se come termine di confronto alle passioni bachiane chiamassimo in causa il teatro musicale del suo tempo, nel cui sviluppo formale il principio rappresentativo dettava ormai legge ma dove non era più possibile riscontrare finalità etica alcuna. Nemmeno gli oratori di Händel, a cui lo stesso Abert attribuisce la genialità di aver compreso il riconoscimento del fondamento religioso del progetto drammaturgico, si sottraggono a questa evoluzione.
Il fatto che Bach non abbia mai composto un’opera teatrale non ci sembra debba significare semplicemente mancanza di vocazione drammatica, ma va interpretato piuttosto come rinuncia a identificarsi in un contesto di regole drammaturgiche distolte dall’antica funzione etica e ormai messe in opera come strumento dell’esteriorizzazione mondana degli affetti. È da un certo tipo di teatro che Bach rimane lontano, non certo dall’idea di teatro tout court.
Innanzitutto v’è la dimensione dell’aria, che nella passione svolge il momento meditativo e che nella Passione secondo Matteo non recede dal livello di «modernizzazione» precedentemente raggiunto, ma - nella combinazione arioso-aria (pressoché assente nella Passione secondo Giovanni) - si articola in direzione capace di meglio recepire la spinta degli affetti.
Allo stesso livello è da porre il recitativo che, negli interventi del Cristo, abbandona l’essenziale formulazione per far posto all’aura attonita procurata dalle soffuse sonorità degli archi. Non è quindi certo in questa sede che il compositore si chiude in una ricerca puramente speculativa. Inoltre non si possono trascurare gli straordinari sviluppi corali, teatralmente ancor più importanti e non senza motivo. Basterà soffermarci sull’episodio dell’arresto di Gesù (n. 33), dove più esteriormente si manifesta l’esigenza d’impiego dei cori spezzati (nella Passione secondo Giovanni il coro costituiva un unico e compatto organismo), la cui presenza di per sé costituisce un’indicazione spaziale (metafora scenica). L’ira che i cori qui scatenano («Sind Blitze, sind Donner») non suscita tanto un quadro immaginificamente solcato da tempeste, ma chiaramente pretende di scuotere l’ascoltatore facendolo direttamente partecipe dell’invocazione alle forze soprannaturali, chiamate in causa a contrastare l’infamia che sta per essere compiuta.
E qui Bach non si dimostra certo musicista sordo al suo tempo: la pausa generale che interrompe improvvisamente l’esclamazione corale prima dell’invocazione «Spalanca i tuoi abissi di fuoco, o inferno» è troppo insolita nel fluente scorrere del discorso bachiano per non imporsi all’attenzione. Il discorso che si interrompe in re maggiore riprende in fa diesis maggiore dopo la pausa, con un brusco scarto di terza che si lascia riconoscere (secondo quanto ha acutamente rilevato Giorgio Pestelli) come luogo deputato dell’opera seria secentesca fin dal Giasone (1649), dove Cavalli anticipa simile trattamento nell’aria di Medea «Dell’antro magico / stridenti cardini / il varco apritemi».
È possibile quindi rilevare un collegamento con il teatro, più propriamente con la tragedia, con un concetto di dramma coerentemente svolto e non già distolto dal compito didascalicamente rappresentativo, come ormai avveniva nell’opera in musica dei contemporanei di Bach. Nella stessa scena della Matthäus-Passion (n. 33) l’incitamento del coro ai soldati affinché liberino il Cristo, che avviene per interiezioni («Lässt ihn, haltet, bindet nicht») è, non senza fondamento, individuato dal Pestelli come ascendenza dell’idea moderna di «coro parlato». In verità è la parola che qui primeggia sulla musica o meglio – poiché nella dialettica concezione bachiana non esiste nessun rapporto di servitù – è la musica che si fa parola secondo un disegno coerentemente didascalico nell’affermazione del compito di meditazione collettiva sul fatto religioso. E la stessa caratteristica denota il trattamento di tutte le altre scene corali drammatiche, sottolineata dal fatto che rispetto alla Passione secondo Giovanni Bach qui realizza la concisione massima in un modello di sintesi effettivamente chiamato a valorizzare la parola.
L’autore era quindi consapevole del processo sviluppato nel chiarire la portata degli aspetti tragici del contesto liturgico in cui si muoveva. D’altronde la passione, che ai tempi di Bach si lasciava assimilare all’esuberante drammatizzazione delle forme oratoriali, aveva un ascendente nella passione medievale, momento ufficiale di fiancheggiamento della liturgia pasquale, dove l’esigenza di fare appello alla partecipazione della massa dei fedeli era spinta al punto da tollerare fenomeni curiosi di sincretismo: l’azione vi era effettivamente sceneggiata e, accanto ai personaggi della vicenda evangelica, la fantasia popolare celebrava spesso la presenza delle figure predilette dell’oscura mitologia medievale (i bestiari), sottolineata dall’interpolazione di canti profani. Con Bach siamo ormai lontani da questo livello, ma l’eco di quelle origini non vi è del tutto spento: secondo lo Spitta il tratto naturalistico che il compositore si concede intonando le parole «prima che il gallo canti» (n. 22) su un ritmo scandito secondo il canto del gallo, si lascerebbe leggere in trasparenza come il prolungamento di colorita tradizione popolare anticamente integrata alla liturgia.
La dimensione popolare si lascia tuttavia leggere nello spazio che Bach riserva al corale, alla voce della comunità orante, effettivamente chiamata ad intonare la melodia liturgica in un’azione musicale innervata nel culto. In realtà le quattordici stazioni, in cui nella Passione secondo Matteo l’appuntamento con il corale fa appello ai fedeli, sono anche momenti in cui essi si trovano a svolgere un ruolo dialettico, interlocutorio, e quindi drammatico.
Lo si deduce in modo evidente dal corale «Ich bin’s, ich sollte büssen» (n. 16) il quale replica direttamente al coro «Herr, bin ich’s» con cui i discepoli interrogano il Cristo all’annuncio che uno di loro l’avrebbe tradito. In altro modo lo denota lo svolgimento a cui è sottoposto il corale di Paul Gerhardt «O Haupt voll Blut and Wunden». Tale «choral de la supplication» (J. Chailley) non solo è un filo rosso che corre parallelo al racconto evangelico ma, persino nel quadro impassibile di epica religiosità, giunge a recare nella forma dei suoi cinque ricorsi i segni della commozione. Non una volta riappare tale e quale: la mano dell’armonizzatore lo trasforma gradualmente fino alla versione dolente (n. 72), la quale medita sulla morte di Gesù con espressione trascolorata in armonie smarrite in una concatenazione priva di orientamento e deviata in sorprendente cadenza modale. Ciò avviene sulle parole «Angst und Pein», dotto «madrigalismo» capace di mostrare che Bach non intende semplicisticamente il corale come un ossequio assoluto all’espressione dimessa del popolo.
L’operazione bachiana, che è grande proprio per la restaurazione dell’antica nozione rituale in un’epoca in cui la musica era già avanzata sulla china della mondanizzazione, è infatti grande pure per il motivo opposto, per la capacità di attualizzarne la portata integrandovi i moderni princìpi di drammatizzazione, per non dire di spettacolarizzazione. Una pagina come il poderoso coro iniziale, che al magmatico spessore delle parti vocali e orchestrali vede contrapposto il corale «O Lamm Gottes unschuldig» («soprano in ripieno»), nell’estesa plasticità lo rivela. E la colossale chiusa della prima parte non solo è significativa per la profonda dottrina polifonica, che con mano possente guida la melodia di «O Mensch bewein» nei meandri della complessa forma del corale figurato, ma lo è anche per la capacità di far spiccare il corale nella densità vocale e timbrica, come voce interlocutoria in un discorso nutrito di dialettica drammatica.
Teatro dell’anima potremmo chiamarlo, nel rispetto di un rigore che nulla concede ai pretesti spettacolari. Ma teatro comunque, nell’accezione propria alla configurazione didascalica di una liturgia alla quale e coerentemente si riconduce il capolavoro bachiano.