Ultimo ramo verde del tronco dell'opera seria
Quando l’Idomeneo nel carnevale del 1781 fu rappresentato a Monaco nel teatro di corte, stando alle cronache trasmesse dalla stampa locale, non sembra essere stata la musica di Mozart a produrre la sensazione maggiore se un giornale si limitava ad annunciare che librettista e compositore vivevano a Salisburgo; mentre un altro si occupava della cornice, aggiungendo che “le scene, di cui le più ispirate sono quelle del porto e del tempio di Nettuno, sono capolavori del nostro architetto teatrale Lorenzo Quaglio, da tutti ammirate”.
Non ci sono motivi per credere che l’opera non fosse accolta favorevolmente, ma è indubbio che nell’atmosfera che circondava il ventiquattrenne compositore gravasse una certa sufficienza – a partire da Sua Altezza Karl Theodor, il quale, dopo una prova dell’opera, lo aveva gratificato del celebre complimento: “Bravo, non si crederebbe che in una piccola testa stessero cose tanto grandi”.
Wolfgang Amadeus era ormai adulto e, come musicista, proprio nell’opera in oggetto poteva vantare una maturità non comune e un talento che avrebbero dovuto spalancargli tutte le porte. Eppure la capitale bavarese, dalla quale volentieri avrebbe accettato la sistemazione che andava rincorrendo come maestro di cappella, non gli fu prodiga.
Quella nobiltà non lo degnò più di tanto, anche se il musicista con l’Idomeneo aveva innalzato un monumento smagliante a un concetto di opera seria aulica, maestosa e ridondante che, nel metastasiano candore della virtù dei regnanti, era impegnata a celebrare i valori di una classe dominante del cui carattere perenne qualcuno aveva ormai cominciato a dubitare. La corte di Monaco guardava indietro con non poca spensieratezza se osò proporre al giovane salisburghese il dramma del Danchet già musicato nel 1712 da André Campra.
La vicenda narra di Idomeneo re di Creta il quale, per salvarsi da una tempesta marina, promette a Nettuno di immolargli la prima creatura che incontrerà sulla riva, creatura che il destino vuole sia il figlio Idamante. Il re non osa adempiere alla promessa e invia Idamante ad Argo con Elettra. Il dio sdegnato manda allora un mostro nel porto di Creta a terrorizzare il popolo.
Idamante affronta il mostro e lo vince, ma il Gran Sacerdote esige il sacrificio. Idomeneo rivela il nome della vittima, mentre Ilia, principessa troiana prigioniera innamorata di Idamante, pretende di morire in sua vece. Di fronte all’esaltante gara di generosità tra Ilia e l’amato, profondamente ligio al dovere di venerare il padre, l’oracolo trasmette la clemenza di Nettuno: Idomeneo abdichi, Idamante sia il suo successore e sposi Ilia. Elettra fugga.
Sulla base di un libretto interamente permeato di aristocratica e mitologica moralità, Mozart compone dunque la sua ultima opera di suddito riverente, prima di spiccare il volo verso l’avventura viennese la quale, con le amarezze che lo vedranno soccombere nel fiore degli anni, aprirà all’opera prospettive drammaturgiche di vitalità capace di ripercuotersi sull’avvenire. L’Idomeneo si presenta invece come meraviglioso e sgargiante fiore imbalsamato, a suggello di una tradizione che nemmeno l’ultimo generoso sforzo riformatore di Gluck aveva potuto sottrarre al declino.
Opera di superba concezione, inferiore all’Orfeo e Euridice solo per talune imperfezioni drammaturgiche, l’Idomeneo rimane l’estremo ramo verde di un tronco che stava per esaurire la propria linfa e per il quale, a ridargli vigore, non bastò il particolare impegno del compositore a chiarire il rapporto tra musica e scena.
Sulla sua determinazione ci informano le lettere al padre, rimasto a Salisburgo a far da intermediario con l’abate Giambattista Varesco, il librettista che dovette subire da parte del musicista infinite pressioni tendenti a snellire l’azione e a togliere le incongruenze drammatiche che minavano la verosimiglianza (il parlare “a parte” nell’aria di Ilia “Se il padre perdei”, più adatto a un recitativo, la soppressione della pantomima che avrebbe dovuto mostrare Nettuno intento a calmare le acque e in generale tutti quegli atteggiamenti che, oltre alla scarsa efficacia drammatica, risultavano accademici e antiquati.
Tuttavia non fu Mozart a ripercorrere le tappe di una riforma teatrale che, con Gluck appunto, aveva ristabilito il primato del dramma sui valori propriamente musicali. Lo stesso anno dell’Idomeneo, mentre si accingeva alla composizione dell’Entführung, Mozart scriveva al padre: “Io non so, ma in un’opera la poesia dev’essere assolutamente figlia devota della musica”, passando alla constatazione che il successo dell’opera seria italiana, a dispetto dei libretti più miserabili, risiedeva appunto nel fatto che la musica vi regnava sovrana.
Il musicista con l’Idomeneo accettava quindi, insieme all’incarico cortigiano, tutte le convenzioni che in termini musicali ne derivavano, appellandosi al modello italiano nel rispetto della tradizione che meglio aveva assecondato le aspirazioni dei potenti. D’altronde nelle opere del suo soggiorno milanese di dieci anni prima (Mitridate, Ascanio in Alba, Lucio Silla) la componente celebrativa già vi dominava nella più pura forma accademica. Su questa linea e senza ambagi si muove Mozart a Monaco: confinando l’azione in recitativi prevalentemente secchi, innalza l’aria a momento emblematico di passioni e moti d’animo dichiarati senza sottintesi e quindi già equilibrati in una struttura per la quale, non essendo chiamata in causa l’emozione diretta, la sola drammaturgia funzionale rimane quella determinata dai valori musicali.
Valori musicali per i quali era di stimolo la situazione privilegiata in cui Mozart venne a trovarsi nella capitale bavarese, con molteplicità e ricchezza di mezzi a disposizione, dove primeggiava la celebre orchestra di Mannheim che vi si era praticamente trasferita tre anni prima al seguito dell’Elettore. Il livello dell’orchestra, che in particolare aveva omologato nella compagine strumentale i clarinetti, spiega in quest’opera l’estrema sfaccettatura della timbrica e soprattutto il principio di una strumentazione che non indulge al totale orchestrale, ma attinge a singoli specifici colori nella caratterizzazione del particolare.
Valori musicali capaci di temperare il virtuosismo delle parti vocali in un contesto in cui la compenetrazione tra il canto e lo strumentale si rivela suprema (si veda, esempio fra i molti, l’esagitato pulsare delle crome ribattute in ottava nei fagotti e nei bassi all’inizio dell’aria di Elettra “Tutte nel cor vi sento”). E valori musicali che, dosati in modo altrettanto esperto, nelle grandiose irruzioni corali riescono a domare il prorompente momento effettistico.
Certo Mozart si spinse anche oltre la convenzione italiana. La funzione dei cori e dei balletti vi risulta esemplata sulla tragédie lyrique, mentre l’alone ultraterreno, che il cavernoso rimbombo di corni e tromboni suscita intorno alla voce dell’oracolo, non può non tradire il richiamo al Gluck dell’Alceste.
V’è poi quel livello di geniale organizzazione ‘parlata’ del canto che nella prima aria di Ilia (“Padre, germani”) riesce in miracoloso connubio a dosare il declamato con la melodia spiegata. Ideale, questo, tenacemente difeso da Mozart contro le rimostranze del tenore Raaff il quale – nel quartetto del terzo atto che, secondo il compositore, avrebbe dovuto dare l’“impressione del linguaggio parlato più che del canto” – si lamentava del fatto che “non c’è da spianar la voce”.
In realtà, pur agendo al di fuori della convenzione, qui Mozart non fece altro che rendere accettabile sul piano del realismo drammatico una forma che, con tutto quanto di elaborato e di distillato vi mise, rimane il riferimento al mondo d’immaginazione iperbolica che l’opera seria italiana, prima ancora della fine del secolo, si ritrovò fra le mani datato e senza prospettiva di sviluppo. Un mondo che tuttavia riuscì ad alimentare a distanza la successiva ricerca mozartiana, come dimostrano d’altronde i tentativi del compositore di rimettere in scena l’Idomeneo durante gli ultimi anni viennesi.
Se il primato della musica sul dramma nell’opera italiana fu responsabile di tanto deprecati arbitrî, abusi e prevaricazioni, la legge suprema dell’armonia che spande luce attraverso il suono è la lezione che continuerà a dettare a Mozart ogni passo della sua esperienza, compreso tutto quanto oggi si usa additare come superamento della diretta influenza italiana. A meno di negare fondamento alla fulminante dichiarazione di poetica che il musicista schizzò nella lettera al padre del 26 settembre 1781 che vale come suo migliore autoritratto: “Ma poiché le passioni anche violente non devono mai arrivare sino al disgusto, così pure la musica, anche nel momento più terribile, non deve mai offendere l’orecchio, ma sempre far godere e rimanere sempre musica”.