Umanità di un capolavoro
Nonostante il fatto che, chi più chi meno, tutti gli operisti italiani dell’Ottocento siano stati confrontati con la composizione di musica religiosa, la Messa da requiem di Verdi rimane un lavoro a sé stante.
Da tempo, accanto alle più note composizioni rossiniane (Stabat mater, ecc.) sono riapparse in circolazione opere di chiesa belliniane, donizettiane, pucciniane, ecc. La verifica su questi lavori consente di stabilire la sopravvivenza di un impianto concertante esemplato sulla tradizione della musica sacra italiana risalente fino al Seicento, perlomeno fino al Monteverdi del Vespro.
Pure considerando il capolavoro dalle sembianze più teatrali (lo Stabat mater di Rossini) è accertabile che la ‘teatralità’ della sua scrittura si collega alle opere sceniche del suo autore non per rilevare una discrepanza rispetto allo stile chiesastico, ma in un certo senso per mostrare la continuità tra i due ambiti che in modo non dissimile coltivarono il belcanto come esaltazione della componente lirica dell’espressione.
Alessandro Manzoni
Nella maggiore opera religiosa di Verdi al contrario l’aspetto della teatralità si pone sotto un diverso profilo, quello del dramma. Si pensi al “Dies irae”, che anticipa in modo evidente i tratti scatenati della scena iniziale della tempesta in Otello, mentre Hans von Bülow (sebbene in termini sprezzanti) definì il lavoro “la sua ultima opera (teatrale) in veste chiesastica”.
Paradossalmente è forse il Requiem la composizione verdiana più eloquente nel mostrare il superamento della concezione belcantistica del teatro in una drammaturgia risolta nell’azione e del gesto al di là di lirici compiacimenti, nel riconoscimento della realtà turbolenta dell’animo umano dove il principio del contrasto, della contraddizione, della dialettica dei sentimenti prevale sulla loro estrinsecazione.
Il fatto che Bellini e Donizetti nelle loro messe si siano attenuti a un modello costruttivo coordinante unità liriche a denominatore comune consente di valutare l’enorme balzo compiuto da Verdi, con coraggio, proprio in campo religioso, conservativo al punto da condizionare ancora (nel senso del primato estetico riaffermato dell’antica struttura dell’aria) la giovanile Messa di Gloria di Puccini.
Si dirà che se invece di un Requiem Verdi si fosse trovato a musicare una normale messa, cioè un testo più astrattamente concettuale, non avrebbe potuto trovare appiglio a una concezione in ogni momento immaginifica e plastica nel potere rappresentativo del destino universale dell’uomo. Il testo di una messa da requiem appariva meno legato a particolari principi confessionali, e inoltre richiamava il musicista a uno dei temi più vibranti della sua drammaturgia, quella dell’uomo posto di fronte al destino e alla morte.
Non per questo, per la mancanza di una dimensione prettamente teologica, è accettabile il giudizio negativo di chi pretenderebbe l’opera fallita nell’assunto, come pare di leggere in un commento di Giulio Confalonieri (Storia della musica, 1958) dove si legge che la popolarità del lavoro dipende da ragioni estranee al suo intrinseco valore, che la musica religiosa non dovrebbe essere musica di facile ascolto poiché in un certo qual modo è tenuta a eliminare da se stessa larga parte delle esperienze, delle conoscenze, della realtà quotidiana; che nella musica religiosa, quella veramente tale e superiore, l’elemento simbolico e allusivo è ancora più ampio che nella musica strumentale, in quanto contempla un oggetto per se stesso ignoto.
In realtà questo giudizio valido nella misura in cui è possibile rovesciarlo proprio a favore di Verdi, dell’assunto epico che traspare in ogni sua composizione sia essa giovanile o tarda, della radicale reinvenzione dei moduli espressivi di una musica religiosa che, tra infatuazione romantica per la realtà spirituale e gli arcaici vagheggiamenti del cecilianesimo, aveva confuso più che chiarito le idee dell’Ottocento.
25 maggio 1874. Esecuzione del Requiem alla Scala: Ormondo Maini basso, Giuseppe Capponi tenore, Maria Waldmann mezzosoprano e Teresa Stolz soprano. Direttore Giuseppe Verdi
Verdi in una parola sbarazza il campo dalle ambiguità, dalle precarie sopravvivenze di concezioni ormai inattuali e sceglie di operare sull’uomo, sulla sua sensibilità, sensibilità laica perlomeno nel senso di una intima coscienza non preformata da apparati educativi e dottrinali, suscitando l’immagine del destino trascendente nell’evidenza di una rappresentazione che induce alla meditazione personale, individualmente motivata per essere essa sottratta alla portata uniformante dei simboli teologali.
In fondo tale dimensione fu colta immediatamente da Filippo Filippi recensendo ne “La Perseveranza” la prima esecuzione del lavoro nella Chiesa di San Marco a Milano (diretta dall’autore stesso il 22 maggio 1874 nel primo anniversario della morte di Manzoni alla cui memoria il lavoro fu dedicato), con queste parole: “una produzione non già mistica, ma umana, drammatica, che va dritta al cuore, acconciandosi così alle volte brune, misteriose del tempio, come all’ambiente sfolgorante del teatro”. L’anno dopo gli faceva eco l’autorevole Eduard Hanslick in occasione dell’esecuzione del lavoro a Vienna: “nessun momento del Requiem è futile, falso o frivolo […] Ciò che appare così passionale e sensuale nel Requiem di Verdi deriva dalle tradizioni emotive della sua gente e gli Italiani hanno tutto il diritto di poter parlare a Dio nella loro lingua!”.
Non so se questo possa essere chiamato atteggiamento moderno: è innegabile che costituiva un fatto nuovo nella musica di chiesa.