Un individuale colloquio con la morte: Ein deutsches Requiem di Brahms
Quando Schumann nel 1853 in un articolo rimasto celebre (Vie nuove) celebrò l’avvento di Brahms sulle colonne della sua rivista (“Zeitschrift für Musik”) accennò alla natura sinfonica del suo genio musicale.
In verità il giovanissimo compositore fino a quel momento vantava solo un patrimonio di pezzi pianistici, di Lieder e di composizioni cameristiche, per cui tale giudizio gravò come particolare responsabilità sul suo corso creativo, ritardando oltremodo l’incontro con la sinfonia. Prima della sinfonia l’incontro con l’orchestra (tranne le due serenate e il primo concerto per pianoforte) avvenne tuttavia nel Requiem tedesco, concepito nel 1861 come cantata in quattro parti, d’altra parte maturata a partire da una sonata per due pianoforti che costituì un momento di volta. Tale composizione, di cui aveva ultimato tre tempi, conobbe un destino tormentato. Sottoposta ad esame attraverso l’esecuzione con Clara Schumann, Brahms ne ricavò una convinzione diversa: ”Nemmeno due pianoforti mi bastano”, scrisse all’amico Joseph Joachim. La conseguenza fu che il primo tempo venne più tardi elaborato fino a divenire il primo movimento del Concerto in re minore per pianoforte e orchestra, mentre il secondo, l’Adagio, diventò il secondo numero di Ein deutsches Requiem, appunto, determinandone la gestazione laboriosa. Già derivandone il progetto da un appunto di Schumann, vi pesava il senso di un omaggio in morte dell’amico, il quale nel 1853 in una lettera a Ludwig Meinhardus aveva scritto: “Coro e orchestra ci sollevano al di sopra di noi stessi”. Nel 1865 vi si aggiunse la morte della madre, confermando in questo lungo iter compositivo la scelta dell’individuale colloquio con la morte, evidenziato dal fatto di ricorrere a una libera e personale selezione di testi tratti dalla versione tedesca delle Sacre Scritture. Strutturato in sei movimenti nel 1866 il lavoro ebbe un battesimo parziale a Vienna l’anno seguente, quando i tre primi movimenti furono eseguiti con scarso successo. Ciò non impedì a Karl Reinthaler, maestro del duomo di Brema, di appassionarsi per questo lavoro al punto da predisporne la prima esecuzione, invitando Brahms stesso a dirigerlo il venerdì santo del 1868. Questa volta il successo fu grandioso, al punto da richiedere una replica qualche giorno dopo e ottenendo estesa risonanza. Ma non fu questo il punto d’arrivo, poiché nei mesi successivi il compositore vi aggiunse un settimo numero (l’attuale quinto movimento per soprano e coro), presentato a Zurigo nel settembre 1868 da Ida Suter-Weber accompagnata dall’Orchestra della Tonhalle diretta da Friedrich Hegar, prima di essere inserito definitivamente nella redazione finale. In capo a pochi anni il Requiem tedesco aveva fatto il giro delle principali città tedesche, giungendo anche a Parigi, Londra, San Pietroburgo.
Ciò che distingue il capolavoro brahmsiano da tutti gli altri monumenti vocali-strumentali del XIX secolo è la caratteristica di presentarsi come composizione che, alla motivazione derivante dal fatto di situarsi in un preciso filone di tradizione ‘liturgica’ (come concezione dettata dall’esterno), sostituisce il primato della presa di posizione interiore, il progetto espressivo individuale. Con ciò non s’intende escludere che nei grandi affreschi corali-orchestrali del secolo, a partire dalla Missa solemnis di Beethoven, il peso della componente soggettiva sia trascurabile. Certamente no: essa vi risulta più che implicata, ma nello stesso tempo chiaramente inquadrata nell’ipoteca imposta dalla tradizione, sottoforma di vincoli formali derivanti dagli exempla del passato, presenti come irrigidimento di una severità di linee e di rapporti dati al di là della capacità del singolo di piegarli ad esigenza espressiva esclusivamente propria.
Persino il confronto con un capolavoro parallelo come la Messa da Requiem di Verdi, riconosciuta derogante per la ‘teatralità’ dei suoi sviluppi, consentirebbe a Brahms di vantare un primato. Per quanto si rifaccia a una matrice espressiva di impianto ‘profano’ nella sua derivazione drammatica, il rispetto della logica ‘liturgica’ in Verdi regge ancora appieno. La terribilità della rappresentazione del giudizio universale vi esplode in perentorietà rappresentativa degna di un grande autore di teatro, ma soprattutto nella logica della didascalica evidenza del castigo di Dio che la Chiesa cattolica invoca perlomeno dalla Controriforma. Senza imparentarsi con tratti scenico-rappresentativi Ein deutsches Requiem è invece ‘profano’ su un versante che non lascia riconoscere modelli, presentandosi alla storia probabilmente come la prima opera ‘sacra’ che possa essere eseguita in una sala di concerto anziché in chiesa senza soffrirne.
Evidentemente sarebbe facile registrarne tutte le caratteristiche anticattoliche per rivendicarlo al presupposto luterano, per il fatto che la qualificazione protestante dipende dall’eliminazione della mediazione istituzionale della chiesa tra Dio e l’uomo, lasciato in solitudine di fronte alla realtà della morte. Sennonché la tradizione protestante può vantare una propria ‘iconografia’ musicale storica, che attraverso Bach ha trasmesso i suoi modelli. Gli oratori di Mendelssohn sono ad esempio lì a dimostrare come la prospettiva luterana si imponesse nel riferimento al patrimonio di una storia musicale resa antica nei nomi di Bach e di Händel. Con Brahms il salto di qualità è un altro ed è quello di un artista che prende coscienza di non potersi più affidare alla tradizione per dar voce alla meditazione sulla morte, ma di dovervi rispondere con un atto individuale, responsabile solo di fronte a se stesso. La scelta dei testi è sintomatica: la loro provenienza è evangelica e biblica, ma il discorso che sottendono prescinde da qualsiasi formalizzazione concettuale protestante sedimentata nella tradizione per presentarsi come un messaggio individuale, di sentimento di epurazione di fronte a un’idea di morte accolta con candida gioia, come testimonianza soggettiva di un’esperienza che non abbisogna di conferme nella consuetudine per giustificarsi.
In campo luterano non vigono regole liturgiche pari, per severità, a quelle imposte alla pratica musicale cattolica nel rispetto dei testi canonici. Le cantate di Bach ci dimostrano quale spazio di ricerca personale fosse concesso agli artisti nell’individuazione del rispettivo messaggio spirituale. In Bach domina tuttavia il corale, che agisce come un punto fermo, come faro in una situazione di libero corso espressivo controllato dalla disciplina del richiamo al canto della comunità orante, immutabile nella sua dimensione di valore assoluto.
In Brahms tale dimensione è superata. Bach vi è sotteso, e profondamente, ma si tratta del Bach dei grandi affreschi corali, del vasto respiro polifonico, della costruzione di uno spazio di suoni capaci di sprigionare l’energia dell’universo in forme grandiose. Ma di Bach non c’è il corale. È vero che, più dei solisti (soprano e basso), è il coro nel Requiem tedesco a spiccare; chiamato tuttavia a sostenere il ruolo non in nome della coscienza collettiva (che nel corale avrebbe dovuto trovare la propria metafora) ma di quella individuale, solitaria e arresa al senso di impotenza di fronte alla morte, che l’enormità dell’apparato espressivo rende ancor più fragile nella relatività della propria soggettiva costituzione.