“L’IMMAGINE DELL’EMPRESENTE, FOSCO MARAINI, UNA RETROSPETTIVA”.
Al Museo delle Culture di Lugano è possibile visitare ancora per qualche giorno, fino al 19 gennaio 2025, “L’IMMAGINE DELL’EMPRESENTE, FOSCO MARAINI, UNA RETROSPETTIVA”.
La mostra espone 230 fotografie in bianco e nero, scelte fra le 42000 dell’archivio fotografico personale di Maraini conservate, insieme alla sua biblioteca di circa 9000 esemplari fra volumi e periodici, presso il Gabinetto scientifico-letterario G. P. Vieusseux di Firenze.
Fosco Maraini si dedicò con passione nel corso della sua vita (Firenze 15 novembre 1912 – Firenze 8 giugno 2004) alle culture orientali, all’antropologia, all’alpinismo e la sua fotografia, insieme alla scrittura, ci raccontano ancora oggi di viaggi fra genti e paesi lontani, di scoperte meravigliose, di popolazioni umane in equilibrio con il loro mondo naturale, di territori che ancora non conoscevano orme umane, di nevi e ghiacciai immacolati, osservati e ripresi da lontano e poi avventurosamente raggiunti e amati. Dicono di luoghi un tempo inaccessibili e oggi dolorosamente perduti, civiltà e natura travolte irreparabilmente dalla scomposta evoluzione di costumi e pratiche, di sentimenti e appetiti umani che hanno cancellato per sempre equilibri naturali e adattamenti millenari.
Per ricordare Fosco Maraini a vent’anni dalla sua morte, pubblichiamo alcuni scatti presentati nella retrospettiva di Lugano e due pagine tratte dal suo “Segreto Tibet” (Leonardo da Vinci, Bari, 1951).
Dalla felce al ghiacciaio
Siamo arrivati a Siliguri. L’Imàlaya è ormai vicinissimo, sovrasta ripido e imperioso le pianure del Bengala. In poche marce, in meno di una settimana, dalle palme e dalle felci arboree è possibile raggiungere le nevi ed i ghiacciai. Riunisco qui gli appunti presi in vari momenti dello Stato del Sikkim fra l’India e il Tibet, per rifare idealmente uno dei viaggi più belli del mondo: quello dalle valli sepolte nelle nebbie e delle piogge, allo scintillio delle vette ghiacciate liberi nel sole.
Fra Dikchu e Mangen
Seguiamo il fondo di una forra smisurata dove scorre il Tista; per qualità torrente, per quantità fiume. Immaginarsi l’Adige od il Po che precipitassero in piena per una gola tortuosa, fra massi giganteschi, trasportando tronchi divelti, roteanti come fuscelli nei gorghi! Siamo a poche centinaia di metri sul livello del mare; fa un caldo soffocante, l’aria suda, piange, tutto sembra liquefarsi.; potremmo camminare senza nulla addosso se non fosse per le sanguisughe e le zanzare; invece bisogna stare ben coperti e le vesti si appiccicano alla pelle.
Intorno la foresta si rinserra in un’angoscia gocciolante e verde. La nebbia discioglie tutto ciò che vediamo (il terriccio lubrico e putrescente, le foglie, i tronchi, gli alberi vicini e lontani) in un bigiore uniforme e pieno di mistero, togliendo a ciascun elemento qualcosa della sua materialità precisa e creando una diffusa materialità vaga e carnosa. Le sinistre cripte vegetali, in cui penetro con lo sguardo come il profano penetra esplorando con gli occhi una ferita, si perdono fra tendami e baldacchini verdi, su verso le chiome pesanti e tenebrose degli alberi. Ogni tanto dei mazzi di orchidee bianche pendono dai rami. Bellissime ma sinistre. Fiori da mandarsi ad un nemico con un veleno nel profumo. E poi serpenti che sostano o se ne scivolano via in silenzio; e frutti pomposi che cadono con un tonfo grasso nel silenzio gocciolante. La foresta è viva; come individui e come collettività; viva nei tronchi impellicciati di muschi e vestiti di felci, nei frutti, nelle farfalle, nei gorgoglii, nei fischi, negli schianti, nel frusciare improvviso ed incomprensibile. La senti, la foresta, che ha una sua personalità, sue voglie, sue cattiverie, suoi odii; una sua fame, sue stanchezze e languori, suoi occhi occulti. Non puoi sfuggirle una volta che la penetri. I tentacoli verdi ti chiudono in un abbraccio angoscioso. Come dire l’eccitazione strana che inducono alla lunga quelle carni verdi, quei mostruosi tronchi addobbati di muschi gocciolanti? E le carezze delle foglie vaste e lucide sulla pelle delle mani! Il contatto delle scorze, ‘ebbrezza dei profumi e degli odori! Ma, parallelamente, chi può esprimere appieno il senso repulsivo di tanta strisciante, insinuante, formicolante, turgescente vitalità? Chi può esprimere la paura della morte che si cela dappertutto? Non della morte specificamente in quanto pericolo, ma in un senso sottile è ininvadente. In nessun altro luogo vita e morte sono così intimamente unite ed aggrovigliate. Ecco l’albero che era caduto dalle cui fibre in decomposizione traggono nutrimento migliaia di esseri, un popolo di funghi, insetti, vermi, felci, muschi, licheni, plasmodii; ecco la serpe che sguscia in silenzio fra i fiori carnivori; ecco la farfalla che vola solenne, capricciosa e si ferma sulla carcassa gialla di un animale; Ecco l’agguato, il male penetrante segreto, l’inganno; ecco lo splendore e l’orrore insieme.
Baudelaire sarebbe impazzito a tutti questi occulti suggerimenti.
Serré, fourmillant, comme un million d’helmintes
Dans nos cerveaux ribote un peuple de Demons.
e avrebbe subito cantato il Grande Parallelo; quello fra la foresta tropicale ed il cuore dell’uomo.
Ancora Elephanta: il mondo come cattedrale, il mondo come utero
L’India è stata la Grecia dell’Asia. L’India è stata per l’oriente ciò che la Grecia è stata per l’occidente, per noi; l’origine cioè di tutti quei movimenti di pensiero, di tutte quelle influenze nelle arti e nella poesia che hanno determinato per millenni, ed in parte ancora determinano, la vita spirituale di milioni di uomini. In più questo; mentre la Grecia non ha contribuito alla civiltà dell’occidente la religione che poi doveva divenirne la vita, l’India ha dato col buddismo all’Asia il suo più grandioso movimento civilizzatore.
A proposito di questo parallelo fra la Grecia e l’India, e per sottolineare il carattere differenziale delle due civiltà, ricordo le parole del Grousset: “L’Inde, cette Grèce excessive...” In Grecia tutto tende all’armonia. Il Partenone è un simbolo per le arti, ed il Fedone e la Teoria Tolemaica possono valere come tali per il pensiero. Anche la matematica e la geometria greche amarono il commensurabile e l’unitario, fuggendo quasi come un peccato dell’intelletto le ricerche che portassero verso gli infinitesimi, o l’infinito.
Volgiamoci invece all’India a “ cette Grèce excessive”. Tutto è smoderato, gigantesco, formicolante, sublime, spaventoso... Mentre in Grecia il mondo viene sempre ricondotto alla misura dell’uomo, e si può dire che il greco tende a fare del cosmo una casa, un luogo caldo, accogliente, ragionevole e concepibile, in India è l’uomo che cerca d’adeguarsi alla fantasmagoria degli universi fuggenti come spirali, oltre gli orizzonti spessi della mente, agli orizzonti pieni di mistero, e d’ignoti poteri, del subconscio.
Il culto di Siva è uno dei frutti più vivi e originali dell’animo indiano. In esso di ritrova l’India ariana con la sua esigenza di logica, di sistema, di luce. Fusa con l’India dravidica, notturna, femminile, sotterranea, con le sue intuizioni, il suo linguaggio di simboli, la sua fantasia, le sue magie, la sua sensualità. Il culto di Siva ci dà il mondo come cattedrale ed il mondo come utero allo stesso tempo; troviamo in esso la vastità cristallina, minerale, della gran navata di pietra che si leva sottile seguendo linee matematiche di forza e l’oscurità d’alcova, infinitamente fertile, misteriosa, calda e desiderata, della matrice.
Come delineare in due parole la filosofia siviatica?
Da una parte nel mondo della nostra esperienza stanno la luce, il bene, il bello, la felicità, dall’altra invece l’oscuro, il male, il brutto, la sofferenza, la morte. La nostra vita ha tanto naturalmente due facce che ogni religione ed ogni filosofia può dirsi caratterizzata dalla sua posizione rispetto a questa constatazione. Così l’universo può essere concepito come una lotta eterna fra i due principii opposti del bene e del male, oppure come fondamentalmente buono. In quest’ultimo caso però ci presenta il formidabile problema: qual è l’origine del male? Epicuro espresse la difficoltà in maniera concisa più di duemila anni fa: se Dio desidera vincere il male senza poterlo fare è impotente; se lo può e non lo vuole è malvagio; infine se ha volere e potere come possiamo renderci conto del male? La corrente indiana di pensiero di cui parliamo risolve questo problema attribuendo all’ente supremo (Siva) una personalità totale, non solo al di là del bene e del male, ma intrinsecamente bene e male. Ora infatti esso è Siva (“il Benevolo”), ora è Bhava (il Prospero”), ma poi è anche Kala (“Tempo”), il gran distruttore, oppure Bhairava, la personificazione del terrore e della morte.
Siva rappresenta dunque le forze selvagge ed indomabili della natura, spietate e bellissime, distruttrici di vita e feconde di vita allo stesso tempo: è la crudeltà e la ferocia delle leggi che governano gli esseri, ma rappresenta allo stesso tempo l’impulso indomabile della vita che risorge sempre nuova dalle ceneri e dalle rovine. Siva vaga per i cimiteri come un asceta discinto, tra cadaveri e dissoluzione, ma è poi dovunque la giovinezza risorga, sbocci, fiorisca: il lingam, il simbolo fallico, ne segna la presenza, come la segnano un fiore od un bambino felice. Distruzione e creazione, vita e morte, bene e male, sofferenze estreme, serenità, piacere estremo, hanno la loro finale consistenza in lui. Ogni apparente contraddizione si risolve nell’Assoluto compassionevole e terribile, feroce ed amante, crudele e dolcissimo, ma soprattutto, prima di tutto, e dopo tutto, eternamente misterioso.