Civiltà e comunicazione: il dilemma "No Billag"
Il prossimo 4 marzo, i cittadini elvetici voteranno “No Billag”, l’iniziativa popolare indetta per abolire il canone radiotelevisivo e con esso l’offerta mediatica diversificata e indipendente della Svizzera.
Sarà una scelta di civiltà: da una parte il servizio pubblico, l’attenzione all’educazione e alle minoranze, la rappresentazione della diversità delle opinioni, dall’altra la radiotelevisione commerciale, sicura preda di potentati economici, e, in onda, il ciarpame, la pubblicità, il vuoto.
Su “Nutrirsi” volentieri ospitiamo un articolo di Carlo Piccardi pubblicato su “laRegione” in data 20 gennaio 2018.
‘No Billag’, un po’ di storia non fa mai male
- laRegione
- 20 Jan 2018
- Di Carlo Piccardi
Dell’iniziativa “No Billag” già si è detto molto. Fra gli argomenti più convincenti per votare contro vi è certamente ciò che sottintende lo slogan “No Billag, no Svizzera”, nel senso che se fosse accettata essa produrrebbe una ferita irrimediabile all’equilibrio che regge il sistema federalistico del nostro Paese.
Si tratterebbe infatti di una scelta che non solo danneggerebbe in modo profondo gli interessi delle minoranze, ma costituirebbe una rottura del processo storico di maturazione ragionata e graduale delle scelte che hanno edificato la nazione e l’hanno rinforzata e stabilizzata di fronte ai pericoli provenienti dall’esterno, dalla crescita dei nazionalismi, dei totalitarismi, degli estremismi lungo l’800 e il 900.
Radio nazionale, non scontata
All’inizio del secolo scorso non era scontato che il Paese si dotasse di una radio nazionale. Attraverso iniziative locali la radiofonia si sviluppò relativamente tardi rispetto alle altre nazioni e diede vita alla Ssr solo nel 1931, quasi un decennio dopo la creazione delle consorelle di servizio pubblico in Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia. Nella Svizzera italiana si incominciò a parlarne solo nel 1929, come richiesta di concessione di un impianto per trasmissioni regionali.
Evidentemente l’iniziativa era destinata a configurarsi nel quadro delle rivendicazioni allora particolarmente accese del Cantone nei confronti della Confederazione, per il riconoscimento e la difesa delle proprie particolarità etniche e linguistiche.
Comunque è importante rilevare che ciò avvenne non sulla base di iniziative commerciali, ma fin da subito come necessità di servizio pubblico regolato dallo stato cantonale. Così, con una votazione del Gran Consiglio ticinese il 7 luglio 1930, nacque l’Ente autonomo per la diffusione dei programmi nella Svizzera italiana, prima quindi che fosse costituita la Ssr da cui fu logicamente assorbito dando vita alla Radio della Svizzera italiana assegnata a Lugano, dove sorse il primo studio nel 1933.
Il ruolo di Canevascini
Ciò non significa che il progetto godesse di unanimità. Vi furono infatti coloro che si ritenevano già serviti dalle radio che venivano captate nella regione, in particolare ovviamente dall’Eiar come allora era denominata la radio italiana, ritenendo sproporzionata per una piccola regione come la nostra la pretesa di dotarsi di un mezzo tanto complesso e costoso.
In prima fila furono i socialisti con in testa il consigliere di stato Guglielmo Canevascini a propugnare la scelta definitiva, per l’ovvia intenzione di contrastare l’influenza della radio italiana di regime. Mentre la cerchia ancora attiva degli “aduliani” – degli irredentisti che all’inizio del secolo sostenevano l’idea di un ricongiungimento del Ticino con l’Italia – per ragioni contrarie significativamente vi si opponevano.
Una situazione simmetrica si verificò negli anni Cinquanta quando si prospettò la creazione di una televisione regionale. Anche allora vi furono gli scettici, alcuni dei quali giunsero a proporre di negoziare con la Rai la produzione e la trasmissione da Milano di programmi specificamente destinati alla Svizzera italiana. Cosa da far rizzare i capelli a Giuliano Bignasca (allora ancora bambino)!
Ente nazionale di servizio pubblico
Ma non è la ragione politica il fattore principale che va evidenziato come pietra fondante di quel processo. Più importante fu il fatto che la radiofonia da noi si profilò e si sviluppò secondo il sistema europeo, a partire dal modello della Bbc in Gran Bretagna e delle radio della Repubblica di Weimar, cioè con l’affermazione dell’ente radiofonico nazionale quale servizio pubblico chiamato a informare, educare e intrattenere, profilatosi in opposizione al sistema americano del tutto lasciato all’iniziativa commerciale.
È sulla base del servizio pubblico come principio governante gli enti radiotelevisivi che si fonda la ragione del canone, il quale ovviamente negli Usa è inconcepibile. Non per niente la recente improvvida sortita di Matteo Renzi sull’abolizione del canone Rai, sparata a scopo elettorale, è caduta nel vuoto ed è stata subito accantonata.
In gioco una doppia questione identitaria
In base a questo scenario il rilievo dell’iniziativa No Billag, se fosse accettata, avrebbe quindi una portata doppiamente storica.
Lo sarebbe innanzitutto come lacerazione del corso che fin qui ha guidato l’evoluzione del sistema svizzero nel rispetto e nella promozione delle minoranze, con effetto sciaguratamente destabilizzante nel faticoso processo di edificazione dello stato.
Lo sarebbe anche - e clamorosamente – come rottura del fronte europeo che fino ad oggi ha retto nel fronteggiare l’America e i suoi modelli già dominanti nel cinema e nelle forme di intrattenimento penetrati a modificare il nostro modo di vita, indebolendo il nerbo e la sostanza delle nostre tradizioni per non dire minandole alla base.
Con la votazione del 4 marzo vi è quindi in gioco una doppia questione identitaria: quella nazionale che ci pone di fronte alla minaccia della regressione nel processo del riconoscimento delle minoranze, e quella europea nel prospettare l’abbattimento del servizio pubblico.
A tal proposito si creerebbe un paradosso per cui l’Unione europea di radiotelevisione, cioè l’associazione degli enti radiotelevisivi di servizio pubblico del continente creata nel 1950 in Svizzera e con sede a Ginevra, si troverebbe proprio nel paese che all’origine scelse di promuoverla e ospitarla e che oggi sarebbe il primo a dissociarsi dai suoi principî.
Sarebbe un vero terremoto, che getterebbe a mare un valore e una tradizione che hanno visto la nostra radiotelevisione primeggiare come riferimento per il resto d’Europa, dimostrato da numerose iniziative, fosse solo – per fare un esempio che tutti possono capire – il riconoscimento del nostro ruolo ‘arbitrale’ attraverso i volti popolari di Guido Pancaldi e Gennaro Olivieri nella fortunata stagione di ‘Giochi senza frontiere’.
La prospettiva della “No Billag” è quindi il preannuncio di un divorzio da quello che di buono siamo riusciti a costruire con l’Europa e la scelta di essere il primo paese europeo ad adottare (al di là di quanto già penetrato da oltreoceano in termini di banalizzazione dei programmi) il modello americano, dal quale siamo stati risparmiati per decenni e che ci vedrebbe come capifila di una nuova e devastante colonizzazione subita attraverso l’etere. Gli iniziativisti, provenienti dal populismo che ha preso piede da noi come fede nell’autosufficienza e sospettoso verso l’Europa, si ritrovano quindi ad essere gli alfieri di una maggiore e più insidiosa subordinazione mediatica, oltreché a riconoscersi in sintonia con gli scettici contestatori della nascita della Rsi e della Tsi che in passato magnificavano la concorrenza italiana.
L’effetto della “No Billag” di conseguenza sarebbe il contrario dei loro, peraltro discutibili, principî.