Borromini a Roma - Sant'Agnese in Agone
Su piazza Navona, proprio nel centro, si affaccia la chiesa dedicata alla martire Agnese. La sua denominazione esatta è Sant’Agnese in Agone. Il significato del termine ‘agone’ è l’inizio della sua storia, come del resto quello della piazza, una delle più belle di Roma.
‘Agone’ è una parola greca che ricorda la celebrazione delle gare che ogni cinque anni si tenevano in Grecia, a Olimpia.
In ricordo di questi giochi, l’imperatore Domiziano (81-96 d.C.), fece costruire un grande stadio nell’area del Campo Marzio, dove in onore di Giove Capitolino si disputava il triplice certamen musicum, equestre, gymnicum. Lo stadio, inaugurato nell’86 e dalla capienza di 30.000 spettatori, era orientato N/S con il primo lato curvilineo, l’altro rettilineo e un’altezza pari a 18,50 metri. La struttura rimase attiva fino alla metà del IV secolo, quasi in concomitanza con l’avvenimento del martirio della fanciulla Agnese, uccisa probabilmente fra gli 11 e i 13 anni.
Fu proprio nelle sostruzioni dello stadio, ricettacolo di gente di malaffare e postriboli, che venne giustiziata la giovane cristiana, rea di essersi rifiutata di sacrificare agli dei. La più antica testimonianza dell’accaduto è del 336, ma discordi sono i racconti sulla sua morte: fra le fiamme, iugulata, decapitata. Il corpo venne tumulato nella basilica a lei dedicata sulla via Nomentana, mentre qui, sul luogo del martirio nei fornici dello stadio, venne eretta prima un’edicola e poi (VIII secolo) un piccolo oratorio con ingresso però non sulla piazza, ma sulla strada a lei parallela, oggi via dell’Anima. Lo stadio nel corso del tempo finì in disuso, spogliato dei suoi materiali e ridotto in stalle e grotte che nel Medio Evo appartennero ai monaci benedettini di Farfa.
Tutto cambiò con la fine della cattività avignonese (1399), quando Roma iniziò la sua rinascita. La città si espanse nella zona del Campo Marzio, e la grande area agonale - da cui il termine ‘navona’ - venne di nuovo utilizzata per giochi, come risulta da una testimonianza del 1450. In occasione dell’Anno Santo 1475, papa Sisto IV della Rovere (1471-84) fece livellare la piazza - più tardi anche ammattonata (1488) - che venne fornita d’acqua, grazie a due fontane poste ai lati, mentre quella centrale, un semplice ‘beveratore’ per i cavalli, venne aggiunto nel 1575; allo stesso pontefice inoltre, spetta la decisione di spostare nell’area agonale il mercato del Campidoglio (1477). Contemporaneamente intorno alla piazza cominciarono a sorgere case e palazzi; fu proprio in occasione della costruzione del palazzo per gli Orsini, sul lato sud, che venne scoperto il celebre gruppo scultoreo con Menelao che sorregge Patroclo morente, denominato scherzosamente ‘Pasquino’ (si tratta di una copia romana di un originale greco perduto del 230 a.C., usata come apparato decorativo dello stadio).
Tuttavia per sua la definizione finale bisognerà attendere l’ascesa dei Pamphilij, famiglia originaria di Gubbio e presente a Roma nella figura di Antonio, che vi giunse nel 1471. Fu lui ad acquistare un primo edificio sulla piazza di Parione, quella dove oggi è Pasquino, ma con l’arrivo dei parenti e delle nomine della corte pontificia, la famiglia si allargò, grazie anche a matrimoni mirati con membri della nobiltà romana. Dunque fu gioco forza ampliare il primo edificio che, a questo punto, si affacciò sul lato sud occidentale della piazza.
Qui, nel 1574, nacque Giovanni Battista, il quale dopo aver intrapreso gli studi giuridici, si dedicò alla carriera ecclesiastica: fu prima avvocato concistoriale, poi Uditore di Rota, nunzio a Napoli e in Spagna, cardinale dal 1627 e infine pontefice dal 1644 con il nome di Innocenzo X (di lui rimane il celebre ritratto di Velázquez del 1650, conservato nella Galleria Doria Pamphilij a via del Corso). Tuttavia la storia racconta che accanto al pontefice fu sempre presente la cognata, donna Olimpia Maidalchini, chiamata dai romani, per il carattere estremamente energico, la ‘Pimpaccia’! Per sottolineare maggiormente l’ascesa dei Pamphilij, venne commissionata una ricerca sulle loro nobili origini, individuate addirittura in Numa Pompilio, che Tito Livio considera il secondo fondatore di Roma. A lui, secondo Plutarco e Macrobio, spetta per la prima volta la celebrazione della festa degli Agonalia, tenutasi proprio nell’area poi occupata dallo stadio di Domiziano, dunque quale posto migliore per l’insediamento della famiglia? Spetta dunque a papa Pamphilij, in occasione dell’Anno Santo 1650, la definizione di piazza Navona che, oltre alla costruzione della chiesa, previde anche quella del collegio Innocenziano su via dell’Anima, della fontana dei Fiumi - uno dei capolavori di Gian Lorenzo Bernini e l’unica del tempo di Innocenzo X - e l’allargamento del palazzo (oggi ambasciata del Brasile), noto per la spettacolare galleria di Pietro da Cortona.
Torniamo però alla piccola chiesa nei fornici dello stadio. Già officiata dai monaci basiliani, passò nel X secolo ai potenti benedettini di Farfa e, dopo il restauro di Callisto II (1119-24), venne consacrata sempre in onore di Agnese nel 1123. Di non grandi dimensioni, era provvista dietro l’altare maggiore, di una scala che permetteva di raggiungere il luogo del martirio, ancora riconoscibile nell’ultimo ambiente della cripta attuale. La chiesa, cara ai romani che festeggiavano la santa il 21 gennaio, risultava però nel 1574 ‘sotterranea e umida’, tanto che con l’arrivo della congregazione dei chierici regolari minori, vennero iniziati subito lavori di restauro. I caracciolini, nome con il quale erano meglio conosciuti i chierici, rimasero nella chiesa fino 1652, anno nel quale il titolo cardinalizio venne spostato nella basilica sulla Nomentana, la cura delle anime passò alla vicina San Lorenzo in Damaso e il papa poté finalmente demolirla per erigerne un’altra, progettata da subito come una grandiosa cappella privata, ospitante una monumentale tomba, per sé e tutta la sua famiglia.
Inizialmente il pontefice aveva incaricato Francesco Borromini di realizzare un progetto per il suo sepolcro nella Chiesa Nuova (1650), officiata dagli oratoriani di san Filippo Neri cui era molto devoto, ma poi in occasione della trasformazione della piazza, commissionò a Girolamo Rainaldi la costruzione della nuova chiesa con il suo grandioso monumento funebre. Nel 1652 venne posta la prima pietra, ma questo primo progetto di Rainaldi, steso anche con l’aiuto del figlio Carlo, non piacque al pontefice che decise di interrompere i lavori.
L’anno successivo Borromini, venne incaricato di proseguire il cantiere, che tenne conto del precedente impianto centrale progettato dai Rainaldi. Venne eliminato però il vestibolo, vennero modificate le terminazioni dei bracci laterali e la disposizione delle otto grandi colonne in marmo Cottanello che, rimaste ora libere nel perimetro, evidenziavano sia la loro funzione di sostegno, sia le assialità dell’impianto ecclesiale. Per la facciata Borromini immaginò una parte centrale concava, così da poter accogliere una scalinata dal profilo mistilineo, con campanili laterali che avrebbero sottolineato la presenza della cupola con alto tamburo, ispirata a quelle di Michelangelo per San Pietro e di Carlo Maderno per Sant’Andrea della Valle. In definitiva la facciata maestosa e solenne, si sarebbe posta come una sorta di grande altare per la piazza, visibile da qualunque punto della stessa. La morte del papa nel 1655 tuttavia, fermò i lavori che ripresero però pochi mesi dopo, su sollecitazione del nuovo pontefice Alessandro VII Chigi (1655-67).
La direzione di questi ultimi passò in mano al nipote di Innocenzo X, Camillo, figlio di Donna Olimpia, già cardinal nipote e poi sposo, a dispetto della madre, della giovane e ricchissima Olimpia Aldobrandini. I rapporti tra il Pamphilij e il ticinese divennero subito insostenibili, poiché il principe, che premeva per terminare la chiesa, si lamentava di vederlo sempre più spesso non sul cantiere, ma a gironzolare tra le botteghe dei librai di piazza Navona! Il clima diventò irrespirabile e poco a poco attorno a Borromini venne fatta terra bruciata: tutti erano contro di lui, il committente, le maestranze, gli artisti rivali (fra cui l’onnipresente Bernini), tanto da portarlo nel 1657 alla cacciata dal cantiere! Un’infamia che l’architetto, che aveva lottato fino alla fine per difendere il suo progetto, sopportò molto male. Fu sostituito da ben sette persone, che dopo aver evidenziato i suoi presunti errori tecnici, legati soprattutto al peso della facciata, suggerirono dei rimedi, come si può osservare ancora oggi nel completamento della stessa realizzato da Carlo Rainaldi, chiamato nuovamente a dirigere i lavori (a lui spetta la modifica della pianta dei campanili e l’edificazione della cupola con lanternino, più basso di un quinto rispetto all’idea di Borromini). Il resto venne portato a termine da Antonio del Grande e Giovanni Baratta ma, con la morte di Camillo Pamphilij nel 1666, tutto passò nella mani della madre Olimpia (a lei spetta peraltro l’idea delle famose battaglie navali nella piazza).
La costruzione si protrasse fino al 1672, quando l’interno risultava decorato con marmi e stucchi e con i pennacchi della cupola affrescati da Gaulli, detto Baciccio (Allegorie di Virtù). Mancava la decorazione della cupola con la Gloria del Paradiso di Ciro Ferri, il più grande degli allievi del Cortona, commissionata nel 1670 e rimasta incompiuta per la morte dell’artista nel 1689 (l’opera verrà terminata nel 1693 da Sebastiano Corbellini). Il tempio, decorato dai grandi artisti del Barocco, conserva opere straordinarie per forma e materia.
L’interno si presenta con un grande spazio ottagonale, definito dall’apertura di grandi nicchie rivestite da marmi policromi; sopra l’ingresso è il monumentale sepolcro di Innocenzo X che, dopo le esequie nel palazzo di Montecavallo (cioè il Quirinale) il 7 gennaio del 1655, non venne seppellito se non dopo alcuni giorni e non a cura della famiglia, che si disinteressò del tutto di lui! Le spoglie vennero qui traslate solo nel 1660, mentre il monumento venne eretto molto più tardi, nel 1729, da Gabriele Valvassori e Giovan Battista Maini. I pilastri di sostegno della cupola, come a San Pietro, ospitano quattro altari, fra cui è quello dedicato a Sant’Agnese con pala a rilievo marmoreo di Antonio Raggi, allievo di Bernini, raffigurante il martirio della giovane. Ad Agnese tuttavia, è dedicata anche una cappella sull’ala nord (a sud è invece è quella di san Sebastiano), completamente rivestita in marmo verde antico e contenente la scultura di Ercole Ferrata che la raffigura fra le fiamme (1661). Sull’altare in forma di sarcofago, si trova la colomba con il ramo d’ulivo nel becco, emblema dei Pamphilij che istituirono la martire, protettrice della famiglia. Da segnalare l’altare maggiore, che definisce il fulcro del tempio, in linea con l’obelisco della Fontana dei Fiumi e la tomba di Innocenzo X. Inizialmente commissionato ad Alessandro Algardi, l’altare venne completato dopo morte dell’artista (1654) da Domenico Guidi (1677-83); dedicato a Giovanni Battista, santo eponimo del committente - nipote del papa e con lo stesso nome - è decorato con un altorilievo raffigurante l’Incontro delle due Sante Famiglie.
In definitiva a Sant’Agnese di Francesco Borromini rimangono solo i progetti degli altari fra i pilastri principali, i balconi, le colonne libere e la sacrestia. L’infamia della cacciata dal cantiere avrebbe fatto sempre supporre “che lui havesse fatto qualche mancamento atroce”, come riferiscono le fonti dell’epoca, macchiando per sempre il suo operato, ma soprattutto stravolgendo il suo progetto che doveva essere “conforme la mente del Papa defonto”.
Crediti
Le foto della gallery sono di Vincenzino Siani
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