Claude Debussy. Estampes: Pagodes
”Il compito del poeta è quello di suggerire, ma la sensazione quanto più è leggera, tanto più approfondisce l’essenza delle cose”. Questa frase di Paul Verlaine fu anche un postulato per Claude Debussy la cui arte musicale si espresse “sempre suggerendo e mai proclamando”.
Estampes, raccolta di tre pezzi per pianoforte, segnò una svolta nella maniera di comporre di Debussy. Con Estampes, Debussy si allontanò definitivamente dallo stile clavicembalistico e tardoromantico adottato per i brani composti in gioventù (come Suite Bergamasque, Deux Arabesques, Ballade, Reverie, Valse romantique) costruendo un suo linguaggio personalissimo e rivoluzionario che, a suo dire, si ispirava direttamente ai suoni della natura, alle sonorità della tradizione musicale di popoli orientali prodotte da strumenti musicali allora sconosciuti per l’occidente.
Non più esposizione e sviluppo, non più discorsi musicali costruiti sul principio della concatenazione armonica di accordi, né un continuo dinamismo cromatico, come gli era stato insegnato in Conservatorio, ma una atonalità, una staticità armonica risultante da procedimenti a fasce sonore in cui non c’è più un continuo movimento ma una giustapposizione di accordi, unita a una grande ricerca di sfumature di suono, tese a suggerire atmosfere fluttuanti e indefinite, di grande potenza incantatoria, con dinamiche che vanno dal ppp al ff.
PAGODES
Pagodes, primo dei tre pezzi di Estampes, inizia in pianissimo (pp); l’indicazione dell’autore “délicatement et presque sans nuances” induce l’interprete a non cedere ad alcun tipo di espressività e a instaurare da subito un’atmosfera immobile, fissa, quasi onirica, che evochi vagamente quella che si percepisce ascoltando composizioni di tradizione orientale eseguite da orchestre per lo più formate da numerosi strumenti metallici a percussione (gong, campane, cimbali, ecc.). Fu proprio il Gamelan (orchestra) Giavanese ascoltato all’Esposizione Universale di Parigi nel 1889, a lasciare un’impressione talmente forte nell’animo di Debussy che, ammirato e sedotto dalle sonorità e dalla libertà compositiva di quei popoli lontani, inconsciamente si ritrovò a comporre cercando di ricreare quell’atmosfera.
Suonando Pagodes non posso fare a meno di pensare a tutto questo e cercare il più possibile di riprodurre al pianoforte quelle sonorità per le quali ho una particolare predilezione e delle quali subisco a mia volta il fascino: suoni delicati ma profondi, impalpabili, sfumati, ma anche cristallini, nitidi, squillanti, note basse molto lunghe che rimangono come pedali mentre si inseriscono le altre voci. Ho sperimentato che il tocco adatto per ottenere questi tipi di suoni e che permette di controllare anche le più lievi sfumature è la pressione da vicino delle dita sui tasti, totalmente a contatto con la tastiera.
Marguerite Long, allieva di Debussy negli anni 1914/17, riportò in un suo libro il modo preferito di suonare di Debussy: ”Suonava quasi tutto in mezza tinta, ma con una sonorità piena e intensa, senza alcuna durezza di attacco, come Chopin… La scala delle sue dinamiche andava dal pianissimo (ppp) al forte (f), senza mai arrivare a sonorità scomposte in cui si potesse perdere la sottigliezza delle sue armonie” e ancora il critico Vuilermoz (1878/1960) ”Io lo rivedo dinanzi all’avorio della tastiera, con quell’aria a volte assente e ostinata da esploratore dell’inconoscibile. Ama palpare, maneggiare, impastare la sua musica…”.
Credo che Debussy sia stato veramente il primo compositore occidentale a comporre con suoni anziché con note e fu proprio al pianoforte che, più compiutamente, realizzò i suoi propositi. La ricerca del suono non era fine a se stessa, era, invece, un modo per avvicinarsi alle sonorità della natura, non semplicemente per imitarle ma per evocare gli infiniti stati d’animo che essa può suscitare in chi l’ascolta.
Pagodes, così, non solo ricrea l’atmosfera di un paesaggio orientale imitando i timbri degli strumenti del Gamelan giavanese e usando la scala pentafonica, ma possiede anche, a mio avviso, e spero di renderlo quando lo suono, una singolare capacità evocatrice tale da trasportarci in quel mondo lontano e delicato e coinvolgerci sensorialmente e sentimentalmente tanto da averne nostalgia… il pianoforte diventa qui lo strumento che fa sue e comunica i dolci riti e la spiritualità di civiltà lontane e raffinatissime.
Il brano termina con un altro dei procedimenti compositivi cari a Debussy: la dissolvenza. Una sua frase è impressa nella mia mente e mi è sempre presente quando suono perché ne condivido pienamente i contenuti: “vorrei che la musica avesse l’aria di uscire dall’ombra e che a tratti vi rientrasse”: è ciò che avviene in Pagodes. Gli arabeschi all’acuto, eseguiti sempre più piano fino a “aussi pp que possible” e “retenu”, verso una dissolvenza sonora e ritmica; la mano sinistra, su un’ottava bassa tenuta, fa riascoltare il motivo iniziale con accordi sempre più lontani e indistinti fino a fermarsi sul basso di tonica che da al pezzo una parvenza di connotazione tonale con l’indicazione “laissez vibrer”, aspettando che, nel tempo, le vibrazioni si estinguano e la musica torni in quell’ombra dalla quale è venuta…