Evoluzione: da Australopithecus a Homo, parte prima
Continua il nostro viaggio nel tempo alla scoperta del rapporto che intimamente lega alimentazione ed evoluzione umana.
Spostandoci in pieno Pliocene incontreremo un gruppo di ominini di grande successo evolutivo, le australopitecine. Muovendoci nella savana africana conosceremo nel dettaglio gli straordinari adattamenti alimentari che hanno permesso loro di sopravvivere e prosperare in questo ambiente così particolare. Vedremo come nell’arco di quasi tre milioni di anni, tanto durerà la loro storia evolutiva, le australopitecine si siano differenziate in un gran numero di specie una delle quali potrebbe essere l’antenato diretto dei primi Homo e quindi di tutti noi.
In Africa, al confine occidentale tra Kenya ed Etiopia c’è un lago che per la vastità e le tonalità cangianti dal verde all’azzurro delle sue acque sature di sali è chiamato il mare di giada. Noi lo conosciamo come lago Turkana dal nome di una delle popolazioni che da esso traggono sostentamento; loro, i Turkana, lo chiamano semplicemente Anam, “il lago”. Le moltitudini di uccelli che popolano le sue sponde sono attratte dai pesci e dai piccoli crostacei di cui il lago è ricco, ma dalle sue coste, per miglia, solo il deserto si estende in ogni direzione. Affioranti sulle rive, sparsi tra i banchi erosi di tufo e ghiaia che si tuffano direttamente in acqua, giacciono enormi quantità di resti ossei, porzioni di crani e scheletri interi ridotti in cumuli di frammenti scomposti, come se una forsennata furia distruttrice si fosse abbattuta su schiere di animali di ogni tipo annientandole.
Nessun cataclisma improvviso però, non i grandi coccodrilli signori del lago, né tanto meno i fieri pastori Turkana sono i responsabili di quell’incredibile accumulo: solo il tempo, una smisurata quantità di tempo, ne è la causa.
Tutte quelle ossa sono infatti fossili depositati, strato su strato, in un arco di tempo che dal presente affonda fino a 5-6 milioni di anni e la loro importanza, soprattutto per la storia dell’evoluzione umana, è davvero inimmaginabile. Attorno ai 250 chilometri di coste con cui il lago Turkana si allunga come una radice nel cuore stesso del grande Rift africano, infatti, si affacciano alcuni tra i più importanti siti paleontologici e paleoantropologici che hanno restituito i resti di una frastagliata umanità fossile precedente la nostra, testimoniata in assoluta continuità stratigrafica da un susseguirsi di specie e generi diversi, dalle origini più remote fino al suo massimo sviluppo evolutivo avvenuto nel Plio-Pleistocene.
Di estrema importanza per gli studi paleoantropologici è il fatto che i resti ossei di questi nostri antenati ominini, seppur frammentari, sono inseriti in un contesto paleoambientale e paleofaunistico preservatosi integro in ogni sua componente, all’interno di orizzonti sedimentari continui, intercalati e sigillati da strati di cenere vulcanica compattata in roccia.
Questi strati, oltre ad avere permesso la conservazione dei fossili, consentono oggi ai paleoantropologi di datare con assoluta precisione ogni singolo evento evoluzionistico lì registrato.
Località dai nomi evocativi ed esotici come Koobi-Fora, Ileret, Nariokotome, Lomekwi, Allia bay e Kanapoi sono per i paleoantropologi come altrettante X segnate sopra una gigantesca mappa del tesoro.
Proprio in queste due ultime località, Kanapoi e Allia Bay rispettivamente sulla riva occidentale e orientale del lago Turkana (figura 1), sono stati rinvenuti frammenti del cranio (denti e mandibole) e dello scheletro postcraniale (ossa degli arti e del tronco), di un ominino vissuto tra 4.2 e 3.9 milioni di anni dal presente (da ora Ma), considerato dai membri della comunità scientifica come il precursore di tutta l’umanità successiva e a cui, in onore del grande lago (Anam), è stato dato il nome di Australopithecus anamensis.
Quattro milioni di anni fa il lago Turkana era ancora giovane, le sue acque si estendevano a formare un invaso molto più ampio dell’attuale, indicato dagli studiosi con il nome di Lonyumun, a colmare interamente una profonda e stretta spaccatura nella crosta terrestre formatasi, come nel caso di altri invasi della zona, nel tardo Miocene in conseguenza dei movimenti tellurici di apertura della grande Rift Valley (http://www.nutrirsi.eu/item/341-l-ambiente-l-alimentazione-e-le-origini-dell-uomo). Il paesaggio attorno alle coste di questo paleo-Turkana era molto diverso dall’attuale: tanto oggi è arido e deserto, tanto allora era rigoglioso, coperto di un tipo di foresta tropicale detta “a galleria” perché si infittisce inestricabilmente in prossimità della riva per poi aprirsi fino a trasformarsi gradualmente in foresta aperta e rada in continuità successionale con la boscaglia e la prateria più distante.
In questo ambiente di passaggio tra due mondi, quello di foresta e quello di prateria, viveva Australopithecus anamensis traendo dalla vegetazione circostante sia rifugio che sostentamento come ci è testimoniato oltre che dalle analisi paleoambientali, anche dalle caratteristiche della sua morfologia scheletrica.
Gli adattamenti di ogni organismo infatti, sono il prodotto evolutivo dei molteplici vincoli bio-ingegneristici cui è sottoposto un organo, una struttura o anche un comportamento, in relazione alle modalità di svolgimento di una qualche funzione utile alla sopravvivenza dell’organismo nell’ambiente in cui esso abitualmente vive; in tal senso ci forniscono utili informazioni circa lo stile di vita cui erano associati e il contesto ecologico in cui si sono potuti evolvere.
La morfologia delle ossa della gamba che si sono conservate ci dice, per esempio, che Australopithecus anamensis era in grado di spostarsi sul terreno con un’andatura da perfetto bipede; l’articolazione del ginocchio, infatti, era conformata in modo da distribuire efficientemente il peso corporeo, permettendo di mantenere la stazione eretta anche per periodi di tempo prolungati.
Alcune piccole ossa che formano il palmo della mano e contribuiscono all’articolazione del polso, però, mostrano che il tunnel carpale, attraverso cui passano i tendini dei muscoli che fanno flettere le dita della mano, era molto più profondo che in qualunque altro ominino successivo e ciò suggerire che A. anamensis avesse muscoli potenti e una notevole forza nella mano utile per mantenere una presa salda sui rami degli alberi su cui si arrampicava probabilmente per trovare rifugio e nutrimento.
Riguardo a quest’ultimo aspetto, la morfologia delle mascelle e dei denti ci può dare molte informazioni sulla qualità della dieta di questo nostro antico antenato.
I canini, nei maschi, sono ancora relativamente grandi ma assumono una morfologia incisiviforme (a trapezio) con usura apicale tipica degli ominini successivi, e sono quindi diversi dall’aspetto a cono (o a zanna) dei canini delle antropomorfe e dei primi ominini del Miocene Superiore (http://www.nutrirsi.eu/item/341-l-ambiente-l-alimentazione-e-le-origini-dell-uomo).
Nella mandibola, l’arcata dentaria conserva la conformazione ad U con fila dentarie (l’allineamento su un lato di molari, premolari e canino) parallele come nelle antropomorfe attuali e fossili, diversamente dalla morfologia parabolica tipica delle altre australopitecine e degli umani.
Ciò indica che in questa specie le ossa facciali non avevano ancora cominciato ad arretrare a seguito della perdita di importanza e alla riduzione nelle dimensioni della dentatura anteriore (canini e incisivi), adatta a recidere e masticare alimenti teneri come foglie e frutta, rispetto alla dentatura posteriore, più utile a consumare vegetali coriacei (semi, cormi e tuberi) maggiormente disponibili in un ambiente aperto di prateria.
La mancanza del diastema, cioé dello spazio tra incisivo laterale e canino inferiore per permettere l’alloggio del canino superiore però, indica che i canini mascellari di A. anamensis per quanto grandi se considerati in dimensioni assolute, non si estendevano molto oltre il piano di occlusione dentaria (il piano di contatto dei denti della mandibola e della mascella a morso chiuso).
A questa “tenue” riduzione della dentatura anteriore si contrappone invece un più marcato sviluppo della dentatura posteriore (molari e premolari) e proprio in ciò risiede la novità evolutiva che identifica l’ominino del Turkana come il capostipite delle australopitecine e dell’umanità successiva.
Rispetto alla condizione che si rinviene negli ominini precedenti, infatti, i molari di A. anamensis crescono in dimensione mentre i premolari cominciano a sviluppare radici e cuspidi (le “punte” della corona dentaria) accessorie. Queste ultime nei molari si fanno basse e arrotondate, più adatte a rompere e schiacciare materiali duri e resistenti, e sono protette contro l’eccessiva usura dovuta alla masticazione prolungata da smalto dentario (lo strato molto duro di idrossiapatite che ricopre la corona del dente) molto più spesso rispetto a quello presente nei molari sia delle antropomorfe attuali (scimpanzé e gorilla) che degli ominini del Miocene.
Figura 1. In alto, le differenze nella morfologia cranio-dentale tra un’antropomorfa di foresta (Pan troglodytes) in beige e vari ominini bipedi adattati a differenti nicchie trofiche, Ardipithecus ramidus vegetariano di foresta (in blu), Paranthropus boisei vegetariano di savana (in verde) e Homo ergaster onnivoro di savana (in giallo). In basso, distribuzione geografica dei principali siti con resti di ominini, tra i 7 e i 2 milioni di anni dal presente con evidenziata nel dettaglio la zona de lago Turkana e la sua evoluzione geologica tra i 4.2 e i 3.9 Ma.
Sotto tutti questi punti di vista A. anamensis approssima, anzi prelude, una condizione che sarà tipica di tutti gli ominini successivi.
Questi cambiamenti nella dentatura, ci dicono che A. anamensis aveva una dieta più variata e un comportamento alimentare più complesso rispetto a un tipico ominino di foresta del tardo Miocene, riuscendo a sfruttare con successo anche le “nuove” risorse alimentari rappresentate da vegetali più coriacei e difficili da masticare ma più ricchi di oli vegetali (acidi grassi essenziali), disponibili in grande quantità nell’ambiente di savana, allora in rapida espansione a scapito degli ultimi lembi di foresta chiusa.
Tecniche bio-ingegneristiche digitali molto sofisticate, definite analisi degli elementi finiti o per brevità FEA, consentono agli studiosi di quantificare lo stress cui sono sottoposte le strutture dentarie e ossee durante la masticazione, permettendo di visualizzare le aree di massimo sforzo e di potenziale fragilità.
Un’analisi di questo tipo condotta su resti dentari di vari ominini, ha dimostrato che l’accresciuto spessore nello smalto dentario e la sua riorganizzazione nella microstruttura prismatica, consentiva ai denti di A. anamensis, di sopportare da un punto di vista meccanico carichi masticatori piuttosto elevati (Macho et al. 2005).
In pratica A. anamensis pur condividendo la stessa ecologia forestale degli ominini tardo miocenici Sahelanthropus, Orrorin e Ardipithecus (http://www.nutrirsi.eu/item/341-l-ambiente-l-alimentazione-e-le-origini-dell-uomo), era meglio adattato di questi a consumare alimenti protetti da tegumenti resistenti come i semi di molte leguminose così come vegetali coriacei (e.g. le noci dell’euforbiacea Panda oleosa) e fibrosi come tuberi e rizomi, senza escludere l’occasionale consumo di insetti e piccole prede animali, la cui masticazione richiede uno sforzo muscolare cospicuo e prolungato cui è associato un maggior rischio di potenziali fratture e dislocazioni della mandibola, compensato in A. anamensis dal maggior sviluppo dell’intero apparato masticatorio.
L’aumento nelle dimensioni della dentatura posteriore e del complesso delle strutture muscolari e cranio-facciali legate alla masticazione caratterizzerà l’intera evoluzione delle successive australopitecine.
Queste rappresentano senza dubbio gli ominini di maggior successo evolutivo del Pliocene e al loro interno vanno probabilmente ricercati gli immediati predecessori del genere Homo.
Nell’arco di tempo compreso tra i 4.2 e gli 1.2 Ma dal presente in cui si compie interamente la loro storia evolutiva, le australopitecine andarono incontro ad una rapida diversificazione morfologica e adattativa.
Attualmente se ne conoscono poco meno di dieci specie distribuite su un territorio molto vasto che comprende tutta l’Africa orientale, dal Corno d’Africa fino al Sud Africa con alcuni rinvenimenti isolati e frammentari anche ad ovest della Rift Valley in Chad (figura 1), tutte aree attualmente occupate da ambiente aperto di prateria (veld sudafricano e savana), cui l’evoluzione delle australopitecine è strettamente connessa.
Dal punto di vista anatomico le australopitecine si caratterizzano per volumi cerebrali di poco superiori a quelli di una attuale antropomorfa, con valori compresi tra i 350 e i 500 centimetri cubici (la media per un uomo moderno è superiore ai 1400 centimetri cubici). Sebbene all’interno di ciascuna specie fossero presenti differenze di taglia tra maschi e femmine (fenomeno noto con il termine di dimorfismo sessuale), le dimensioni medie si stimano piuttosto omogenee, non superando di molto il metro di altezza e 30-40 kg di peso per le femmine e il metro e mezzo e 50 kg per i maschi (tabella 1).
Molti aspetti della loro anatomia, come la morfologia del bacino e degli arti posteriori ma anche evidenze dirette conservatesi nella forma di piste di impronte fossili lasciate su uno strato vulcanico antico di 3.8 milioni di anni nella località di Letoli in Tanzania, ci raccontano di ominini dotati di stazione eretta e locomozione bipede quando si spostavano sul terreno. Altri adattamenti, però, quali la lunghezza relativa degli arti anteriori, la curvatura delle falangi e la conformazione dei canali semicircolari dell’orecchio interno (che mediano il senso dell’equilibrio) simili a quelli delle antropomorfe, suggeriscono il mantenimento di uno stile di vita in parte ancora arboricolo.
Come nel caso di A. anamensis, il comportamento locomotorio di tutte le australopitecine, era in sintesi un misto di bipedismo facoltativo sul terreno e capacità di sospensione sui rami.
(fine della prima parte)