FUOCHI DELL'ANTICO LAZIO: IL VULCANO DEI COLLI ALBANI
Verso il 1850, in un’Europa sconvolta dalle rivoluzioni, un signore inglese stava percorrendo in carrozza le strade della nostra Penisola. A quel tempo non erano rari i viaggiatori che compivano il “grand tour” per completare la loro educazione culturale, immergendosi nelle suggestioni ambientali, artistiche e letterarie del nostro Paese, ma questo era un visitatore speciale, Sir R. Murchison, già presidente della prestigiosa Società Geologica Inglese, in viaggio di studio per conoscere la geologia dell’Italia.
Al suo ritorno in patria pubblicò una relazione sulle sue osservazioni, accompagnata dalla carta geologica schematica delle Latian Hills, i Colli Albani, e da una sezione geologica attraverso il grande vulcano.
L’origine vulcanica dei Colli Albani era stata riconosciuta per la prima volta dal fisico Girolamo Lapi, nel 1759, che aveva anche interpretato Albano e Nemi come crateri vulcanici.
Molti studiosi, italiani e stranieri, si erano interessati in seguito di vari aspetti dei Colli Albani, fino alla carta di sintesi di Murchison, e molti altri studi seguirono, sempre più approfonditi, fino alla prima vera Carta geologica dei vulcani del Lazio, pubblicata nel 1874 da G. Ponzi, romano, primo titolare della Cattedra di Geologia a Roma, istituita nel 1864 da Pio IX.
Da allora gli studi su quest’area, rivelatasi di grande interesse, si moltiplicarono e portarono a rappresentazioni cartografiche sempre più dettagliate e a ricostruzioni approfondite dell’evoluzione nel tempo di quello che appariva sempre più un vulcano decisamente complesso.
L’ultima opera, comparsa da pochi mesi, è una completa monografia sul Vulcano dei Colli Albani, corredata da una splendida carta geologica a scala 1:50.000; è stata pubblicata dall’IAVCEI, l’Associazione Internazionale per la Vulcanologia e Chimica dell’Interno della Terra, e ha raccolto i risultati di anni di ricerche di terreno e di laboratorio di moltissimi specialisti, coordinati da Renato Funiciello e Guido Giordano, del Dipartimento di Scienze geologiche dell’Università “Roma Tre”.
A questa monografia abbiamo fatto riferimento per tracciare una breve storia del grande vulcano.
Il vulcano, un laboratorio naturale
I vulcani, «le montagne che eruttano lava e nuvole di fumo» dell’immaginario collettivo, sono considerati dai geologi “finestre” che consentono di dare uno sguardo a regioni del nostro pianeta altrimenti inaccessibili, mediante l’analisi di quanto, attraverso tali aperture, risale in superficie.
Vulcanologi, geochimici, geofisici, sismologi lavorano insieme in questi giganteschi laboratori naturali per comprendere meccanismi e processi che da miliardi di anni caratterizzano uno degli aspetti fondamentali dell'incessante trasformazione del nostro pianeta.
La continua fusione di rocce in particolari zone in profondità, la risalita dei materiali fusi (magmi) in superficie e la loro solidificazione per raffreddamento hanno contribuito, e contribuiscono, all’accrescimento della crosta solida (rocce ignee), mentre la dispersione di gas e vapori ha portato alla formazione dell’atmosfera: tutto questo all’interno di un sistema integrato, regolato da equilibri dinamici, che comprende, accanto alla terra solida, all’idrosfera e all’atmosfera, anche l’intera biosfera.
I Colli Albani sono uno di questi laboratori: proviamo a ricostruire l’evoluzione di 600.000 anni di un’attività che, come vedremo, non è ancora completamente esaurita.
Un’immensa pila di materiali su una superficie di 1600 km2
Nella vita di un vulcano i prodotti di un’eruzione ricoprono più o meno ampiamente quelli di eruzioni precedenti, la cui osservazione è possibile solo nelle zone periferiche o dove l’erosione, scavando profondi solchi, ha messo in luce i materiali sepolti. Nei Colli Albani sono venute in aiuto preziose informazioni dai numerosi sondaggi che hanno accompagnato il continuo diffondersi di centri abitati o industriali.
La complessa struttura che è stata via via messa in luce è quella di un vulcano composito, formato da molteplici edifici, con differenti stili eruttivi e diversi tipi di prodotti, distribuiti in più periodi di attività.
A partire dal più antico, gli edifici sono stati così denominati.
- Vulcano Laziale (in senso stretto: un tempo il nome si riferiva a tutta la struttura): un complesso calderico che comprende i prodotti di gigantesche esplosioni, verificatesi da 600 a 355 ka fa (ka, migliaia di anni).
- Stratovulcano delle Faete, cresciuto all’interno della caldera: attivo da 355 a 250 ka fa.
- Sistema di fessure Tuscolano-Artemisio: peri-calderico ed extra-calderico, attivo da 355 a circa 180 ka (quindi in gran parte contemporaneo allo stratovulcano).
- Campo di maar di Via dei Laghi: crateri di esplosione senza colate laviche, disseminati in posizioni eccentriche, la cui attività è iniziata almeno 200 ka fa ed è tuttora in fase quiescente.
Cerchiamo di farci un’idea di questi edifici vulcanici e dei loro tipi di attività esaminando alcuni dei loro prodotti caratteristici.
Il Vulcano Laziale (600 – 355 ka)
Il Vulcano Laziale è un complesso calderico che comprende i prodotti di almeno 7 gigantesche esplosioni collegate ai margini di un’ampia caldera centrale, cioè un’area di sprofondamento delimitata da estese e profonde fessure, rimaste attive nel tempo per ripetuti collassi.
I prodotti espulsi dalle esplosioni hanno formato un vasto plateau, cioè un’area pianeggiante estesa su oltre 1600 km2 tra il margine dell’Appennino e la riva del mare; il loro spessore totale è di oltre 200 metri ai bordi della caldera e scende in media a poche decine di metri alla periferia, ma con frequenti variazioni.
Il volume totale di materiali emessi è di circa 255 km3, il che fa dei Colli Albani uno dei maggiori vulcani esplosivi - se non il maggiore - tra quelli con chimismo mafico, cioè caratterizzati da minerali con alti contenuti in magnesio e ferro e basso contenuto in silice.
BOX 1
Eruzioni esplosive e depositi piroclastici (o piroclastiti)
I depositi piroclastici sono prodotti dall’accumulo dei materiali eruttati da un vulcano durante la sua attività esplosiva: sono costituiti da frammenti (clasti) derivati dal meccanismo stesso dell’eruzione. Si possono avere esplosioni magmatiche, cioè dovute all’elevata energia di un magma ricco di gas che si liberano con estrema violenza; esplosioni freatiche, dovute al contatto del magma in risalita con acque superficiali, come laghi e fiumi; esplosioni freatomagmatiche, dovute al contatto del magma con l’acqua delle falde che impregnano i terreni attraversati.
Le esplosioni magmatiche generano una colonna di materiali frantumati che i gas trascinano con violenza verso l’alto per alcuni km, prima di perdere energia ed espandersi in una grande nuvola eruttiva: senza il sostegno dei gas, la nuvola collassa e migliaia di tonnellate di materiale ricadono verso il punto di emissione e si spargono tutto intorno, formando un flusso turbolento gas/solido, ad alta concentrazione di particelle solide (colate piroclastiche). In ogni caso, i depositi piroclastici che si accumulano per tale via (ignimbriti) sono formati sia dalla frammentazione diretta del magma (scorie, cristalli di minerali, schegge di vetro vulcanico o ossidiana), sia da frammenti di rocce di ogni tipo attraversate e sbriciolate dall’esplosione.
Gli accumuli sono quasi privi di stratificazione, con granuli fini (cineriti) che avvolgono grossi blocchi o livelli di scorie; a volte conservano legni carbonizzati, strappati al substrato su cui il flusso è scivolato.
Nelle eruzioni freatomagmatiche il brusco passaggio dell’acqua freatica allo stato di vapore per il contatto con il magma genera enormi pressioni, che possono far “saltare” l’intera colonna di rocce sovrastanti la zona di contatto, aprendo un condotto verso l’esterno. Dal cratere esce con grande violenza una colonna di flusso gas/solido che sale verso l’alto, mentre intorno al cratere si allarga una specie di onda concentrica, tipica di esplosioni violente, che dà origine a una densa nuvola di vapore e materiali solidi, a forma di anello (chiamata base-surge). La nube si espande a grande velocità (oltre 150 km/h), lasciando accumuli piroclastici con forme tipiche, simili a dune, che permettono di risalire alla direzione del flusso. Il deposito è ricco di frammenti litici e di cristalli, che rappresentano una preziosa “campionatura” di quanto esiste in profondità al di sopra della camera magmatica. Sono spesso tipicamente presenti i lapilli accrezionari, sferette cineritiche a struttura concentrica formate per aggregazione successiva di veli cineritici intorno a un nucleo preesistente, durante il movimento del flusso.
I prodotti (un tempo chiamati genericamente tufi, in contrapposizione con le lave), sono identificati come ignimbriti, e rappresentano il deposito derivato da un flusso piroclastico (o colata piroclastica) di alta temperatura, emesso da eruzioni esplosive catastrofiche e in grado di espandersi velocemente su grandi superfici (vedi Box 1). Un flusso piroclastico scorre lungo le depressioni e tende a livellare la morfologia preesistente, colmando le valli anche totalmente e mostrando, perciò, spessori localmente variabili.
I vulcanologi hanno diviso in due parti l’intera successione di ignimbriti del Vulcano Laziale: quelle più antiche, le prime 4, costituiscono la Successione dei Tufi pisolitici; quelle successive formano la Successione dei Tufi pozzolanacei.
I Tufi pisolitici si sono formati nei primi 100.000 anni di attività, e sono stati il risultato di grandi esplosioni freatomagmatiche, che hanno generato flussi piroclastici relativamente umidi e freddi, come dimostra l’abbondanza tra i prodotti di lapilli accrezionari e di resti di alberi non carbonizzati.
Il grande vulcano ha iniziato, perciò, la sua attività con un lungo periodo di freatomagmatismo, dovuto a interazioni del magma con corpi idrici poco profondi (mancano infatti nei prodotti espulsi frammenti di rocce del basamento profondo dell’edificio vulcanico, fatto di calcari): probabilmente l’interazione è avvenuta con le acque di uno o più laghi formatisi nella depressione prodotta dallo sprofondamento iniziale dell’area che è diventata una caldera.
Il volume totale dei materiali espulsi, calcolato in base ai dati forniti da molti sondaggi, è di circa 100 km3 e l’indice di esplosività (VEI) di tali manifestazioni è stato calcolato tra 5 e 6 su un massimo di 8 (tabella 1): vuol dire che si è trattato di violenti cataclismi, con durata continua di oltre 12 ore e immissione significativa delle ceneri nella troposfera.
Tra le diverse ignimbriti messe in posto dal primo periodo di attività ricordiamo quella che affiora presso Tor de’ Cenci, la più estesa, che ha trascinato molti rami e tronchi d’albero di diametro fino a 40 cm, e quella del Palatino, di aspetto massivo, cineritica, che affiora con spessore di 7 m nel cuore dell’area dei Fori Romani e la cui superficie conserva incise nel suolo le tracce di antichissimi insediamenti umani.
Ignimbrite del Palatino e del Foro Romano
I tufi pisolitici sono caratterizzati, in definitiva, da notevoli spessori di ignimbriti cineritiche, dovute a eruzioni freatomagmatiche associate a ripetuti collassi della caldera, mentre sono rare e ridotte le colate laviche.
Ma dopo 100.000 anni qualcosa cambia.
I tufi pisolitici sono ricoperti, infatti, dai Tufi pozzolanacei, che corrispondono a grossi spessori di ignimbriti depostesi da flussi piroclastici ricchi di scorie e cineriti grossolane ad alta temperatura. Dalle esplosioni freatomagmatiche si è passati a esplosioni magmatiche, altrettanto violente, ma senza interazione con l’acqua. Tra circa 500 ka a 355 ka tre gigantesche eruzioni esplosive hanno trascinato e accumulato in superficie oltre 200 km3 di materiali piroclastici.
Il nome locale di questi accumuli di scorie di piccole dimensioni, poco o per niente consolidate, di colori dal nero al rosso cupo al violaceo, è pozzolana, e le tre ignimbriti sono da tempo note come Pozzolane Rosse (le più vecchie), Pozzolane nere e Pozzolanelle. Sono materiali cavati fin dal tempo dei Romani e, probabilmente, anche dagli Etruschi, come materiali per costruzione, il cui uso ha portato a una delle più importanti scoperte nella storia dell’uomo, quella del cemento idraulico (cemento che solidifica in ambienti umidi), formato da una miscela di pozzolana e cemento.
La natura chimica del materiale eruttato non cambia rispetto ai tufi pisolitici: il magma è sempre povero in silice e con elevato contenuto in potassio. Cambia invece la frammentazione del magma per il diverso tipo di eruzione: evidentemente, l’accumulo di tufi pisolitici ha compensato lo sprofondamento della caldera, provocando l’estinzione degli antichi specchi lacustri e dell’interazione acqua/magma.
Le numerose cave attive o abbandonate di pozzolana, sparse in tutta la periferia dei Colli Albani, sono un segno della grande estensione di queste ignimbriti. Nella Cava Bulgarini (20 km a NE del centro della caldera e poco a SW di Tivoli) la parete di taglio mostra in maniera spettacolare la sovrapposizione delle tre pozzolane, separate da un livello di paleosuolo di color bruno scuro. I paleosuoli sono il risultato di lunghe fasi di tranquillità, nel corso delle quali la superficie dell’ultima ignimbrite viene alterata e vi si impianta una coltre vegetale, che l’ignimbrite successiva travolge e ricopre.
Pozzolane nei pressi di Tivoli
L’ignimbrite delle Pozzolane Rosse, con un’estensione di 1600 km2, un volume di piroclastici di molte decine di km3 e con un indice di esplosività VEI = 7 è il prodotto della più grande eruzione dei Colli Albani; si è calcolato che il flusso alimentatore doveva essere di 109 kg per secondo, con la formazione di fontane di lava lungo le fessure della caldera.
Particolarmente interessanti sono anche le pozzolane della Formazione di Villa Senni, prodotte dall’ultima grande eruzione del complesso calderico. Dove si presentano con il tipico aspetto di scorie grigio scuro, poco consolidate (Pozzolanelle) contengono a luoghi alte concentrazioni (fino al 35%) di cristalli isolati di leucite (silicato sottosaturo di potassio), di colore bianco opaco, che, per la loro forma tondeggiante, hanno fatto attribuire alla roccia il nome popolare di «occhio di pesce».
Al di sotto delle Pozzolanelle giace una seconda ignimbrite (i due diversi flussi sono stati eruttati in rapida successione, nel corso dello stesso evento), nota come Tufo lionato. Il nome deriva dal suo colore fulvo, simile a quello del leone. La colorazione è dovuta ad un’estesa e uniforme alterazione (con formazione dei minerali zeolitici) che ha interessato la maggior parte delle scorie e la matrice dell’accumulo, cioè il materiale finissimo, vetroso, di origine magmatica (tipo ossidiana), che tiene insieme le scorie. Questa alterazione, che si ritiene dovuta all’azione della temperatura e della pressione di vapore all’interno del deposito, ha conferito alla massa una notevole compattezza, facendone un materiale molto resistente, un tipico tufo litoide. Contiene abbondanti clasti strappati dalle pareti del condotto vulcanico: scorie, frammenti di cristalli e di lave e rari lembi di calcari. È stato abbondantemente usato come pietra da costruzione in monumenti romani ed è usato tuttora, tagliato in tipici blocchetti.
Il Tufo lionato affiora fino alla periferia del vulcano (a 35 km dal centro della caldera), mentre le Pozzolanelle sono solo un po’ meno estese; con la loro messa in posto si è conclusa la storia della caldera, la cui forma attuale è fortemente legata all’evento parossistico finale.
La ricostruzione della storia del complesso calderico si inquadra nell’evoluzione della Campagna Romana. Circa 700 ka fa il sollevamento del rilievo di M. Mario-Ciampino fece deviare il corso del Paleotevere verso SE, cioè verso la futura posizione della caldera; le acque del fiume potrebbero aver invaso la depressione tettonica in sprofondamento, formando un vasto lago. In seguito, il progressivo accrescersi del plateau ignimbritico del Vulcano Laziale sbarrò il corso del Tevere e costrinse progressivamente il fiume a seguire un tracciato simile all’attuale, raggiunto circa 500 ka fa (come si ricava dall’età del più vecchio terrazzo fluviale del Tevere in Roma).
Evoluzione del corso del Tevere in seguito alle imbrigniti dovute alle eruzionidel Vulcano Laziale.
350.000 anni fa tra le pendici dei Monti Prenestini e la costa si estendeva ormai completo il vasto plateau ignimbritico, che degradava con pendenze di pochi gradi verso la sua ampia periferia. Al centro si apriva l’ampia depressione della caldera, di forma grossomodo quadrata, con una pianura interna di circa 8 km di lato racchiusa da un recintopiù o meno rilevato e articolato in più settori, tanto che in pianta esso assume la forma di un ferro di cavallo aperto verso Ovest. Sia pure modificato in parte da attività successive, si riconosce ancora oggi verso NE il settore tuscolano, tra Frascati e Rocca Priora (dove culmina a 786 m) e fino al M. Castellaccio, e verso SE il settore Artemisio(che culmina con i 931 m del Maschio del Larciano); i settori occidentali, invece, sono più bassi e scompaiono sotto vulcaniti più giovani, in corrispondenza di Nemi, Ariccia e Albano.
L’erosione iniziò ben presto a modellare l’intera area, incidendo una rete di corsi che scendevano radialmente per raggiungere il mare attraverso la pianura Pontina o come affluenti dell’Aniene e del Tevere.
La vegetazione rivestì rapidamente il plateau, come aveva fatto più volte nei periodi di relativa quiete tra le grandi esplosioni; era il tempo delle recenti fasi interglaciali e in tutta la futura Campagna Romana si diffondevano praterie arboree, popolate anche da grandi mammiferi.
La quiete non durò molto e, dopo alcune migliaia di anni, l’attività vulcanica riprese, ma con aspetti molto diversi: diminuì molto e divenne prevalentemente effusiva e solo moderatamente esplosiva.
Nacquero, così, due nuovi edifici, uno stratovulcano sorto dentro la caldera e diverse catene di coni di scorie cresciuti lungo fessure associate ai margini della caldera.
Un nuovo edificio: il Vulcano delle Faete (355-250 ka)
L’edificio delle Faete è uno stratovulcano formato dall’accumulo di numerose colate di lava emesse da un condotto vulcanico aperto al centro della caldera, alternate a livelli di piroclastiti prodotte da modeste esplosioni. La sommità è troncata da una piccola caldera (i Campi di Annibale), al centro della quale si alza un minuscolo cono di scorie, M. Vescovo; altri due coni di scorie, alimentati da condotti laterali, sorgono sul bordo della piccola caldera: M. Iano, a NE, e M. Cavo a SW; quest’ultimo con i suoi 949 m di quota è il punto più alto di tutti i Colli Albani.
Le datazioni radiometriche di alcune colate hanno dato valori tra 283±2 ka e 250±1ka. Il rilievo visibile è però solo la sommità dell’edificio: la parte maggiore del vulcanostrato prosegue in profondità, ricoperta dai materiali che hanno via via livellato il fondo della caldera, il cui collasso è continuato anche dopo la fine del Vulcano Laziale per almeno 250 metri.
Il sistema di fessure Tuscolano-Artemisio (355-180 ka)
Contemporaneamente alla crescita dello stratovulcano si è manifestata un’intensa attività lungo profonde fessure, sia associate al bordo della caldera, sia esterne ad essa. I prodotti sono estese colate di leucitite, la tipica lava grigio scura dei Colli Albani, traboccata dalle fessure, con cristalli sparsi di leucite e pirosseno, e allineamenti di coni di scorie da saldate a poco coerenti, saldati l’uno all’altro lungo le fessure di alimentazione.
Uno dei sistemi di fessure maggiori e più antichi è quello del Tuscolo (orientato WNW-ESE), che passa per i centri di Grottaferrata - M. Tuscolo - M. Castellaccio (tra 355 e 310 ka). Tra i numerosi coni che lo mettono in evidenza citiamo Rocca Priora, Monte Compatri, Monte Porzio Catone e Colonna, che ospitano noti centri abitati. Della stessa età è il sistema di M. Artemisio (orientato NE-SW), lungo il quale spiccano i coni di scorie del Maschio dell’Artemisio, di Monte Peschio (che arriva a quota 925) e del Maschio di Lariano.
Più recente è il sistema di fessure di Pantano Borghese (orientato NW-SE) quasi parallelo al Tuscolo, ma spostato di 4 km verso NE, all’esterno della caldera. Nell’intervallo tra circa 300 e 250 ka il sistema ha eruttato lave per uno spessore totale di oltre 130 metri, estese su un’ampia area, da tempo sede di numerose cave per i “sampietrini” (i blocchetti per la pavimentazione stradale).
Il volume di lave emesse indica che in quell’area è stato via via colmato un graben, cioè un lungo settore in graduale sprofondamento tettonico.
Tra i sistemi di fessure più recenti ricordiamo quello di Santa Maria delle Mole (sulla Via Appia), parallelo a quello di Pantano Borghese, ma localizzato dalla parte opposta della caldera. Tra le numerose colate cui ha dato origine la maggiore (e la più famosa dei Colli Albani) è quella di Capo di Bove, che si può seguire senza interruzioni per oltre 10 km dal punto in cui appare (presso Frattocchie) fino al suo fronte, in prossimità del Mausoleo di Cecilia Metella (che reca un fregio in marmo con bucrani, i “capi di bove” che hanno dato il nome alla colata). La Via Appia antica, la “Regina viarum”, corre sulla superficie della colata fino a Frattocchie e dalla colata sono stati ricavati gli elementi del basolato con cui la via continua verso la Piana Pontina. L’età della colata è 280 ka.
Tomba di Cecilia Metella
Tomba di Cecilia Metella, Fregi in marmo con bucrani
Circa 200.000 anni fa l’attività del vulcano si interrompe nuovamente. Non è l’interruzione definitiva, ma quando riprende cambia drammaticamente caratteristiche: inizia una lunga serie di eruzioni freatomagmatiche localizzate in posizione eccentrica, verso W, all’esterno dell’orlo della caldera.
Il campo di maar di Via dei Laghi (~200 ka - quiescente)
Il tratto occidentale del recinto calderico, ribassato rispetto al resto della struttura, è quasi totalmente ricoperto dai prodotti di eruzioni freatomagmatiche che hanno dato origine a una serie di maar, cioè edifici conici molto schiacciati, con versanti molto dolci (2-10°), troncati verso l’alto bruscamente dalle ripide pareti del cratere che, in qualche caso ospita una lago (Albano e Nemi).
Questo tipo di cratere è il risultato di esplosioni di enorme violenza, causate da vapore ad altissima pressione generatosi per interazione di magma con le acque di falda (Box 1). Il vapore frantuma le rocce su cui si è edificato il vulcano e quelle del vulcano stesso, aprendosi un condotto che sbocca in superficie formando il cratere e trascinando un flusso ricco di frammenti. Il flusso, ad altissima energia, si spande radialmente con grande velocità (oltre 150 km/h) e abbandona i materiali solidi, che costruiscono il maar. Sono eruzioni pericolosissime, e tracce di esplosioni analoghe sono state riconosciute anche sulle pendici del Vesuvio.
I materiali del maar possono presentare sostanzialmente due aspetti. In alcuni casi il deposito è formato da sottili livelli piano-paralleli o debolmente ondulati, con alternanza di ceneri finissime ben cementate, contenenti lapilli accrezionari, e livelli di scorie e lapilli. Frammenti (xenoliti) di lave e calcari sono ovunque presenti e abbondanti. L’origine è riferita a una corrente di un flusso diluito. Questo materiale è stato ampiamente cavato fin dai tempi dei Romani ed è noto come “lapis gabinus” (dal maar di Castiglione, o di Gabi, nell’area di pantano Borghese).
In altri casi il deposito è massivo e caotico, tenacemente cementato con abbondanti xenoliti di lave, rocce intrusive e rocce sedimentarie. Anche questo materiale è sfruttato dal tempo dei Romani, ed è noto come “lapis albanus”.
Entrambi i prodotti sono spesso indicati genericamente con il nome commerciale di “peperino”, per la presenza di cristalli neri sparsi come grani di pepe.
Tipico aspetto del Peperino del maar di Albano, costituito da ceneri vulcaniche finissime ben cementate, che contengono abbondanti frammenti, grandi anche molti centimetri (xenoliti), di rocce di vario tipo, strappate dalle pareti del condotto vulcanico dalla violenza dell'esplosione.
I maar, in ordine di età di formazione, corrispondono alle depressioni note come Prata Porci, Pantano Secco, Valle Marciana, Nemi, Ariccia, Laghetto di Giuturna e Albano.
Albano è un maar poligenico, derivato cioè dalla coalescenza di un gruppo di 5 crateri contigui; le sue ripide pareti hanno messo in luce, attraversandole, le pendici inferiori dello stratovulcano delle Faete. Il maar è occupato dal Lago Albano, che è il lago craterico più profondo d’Europa (-175,5 m).
Questo cratere merita una particolare attenzione.
Tra i suoi prodotti sono stati individuati anche dei lahar (il termine indonesiano “lahar” indica colate di fango e di detriti associate ad attività vulcanica, fenomeni frequenti e spesso catastrofici anche a grandi distanze). Tra le cause scatenanti vi è l’improvviso svuotamento del cratere, provocato dalla violenta emissione di gas (come CO2) sul fondo del lago: questa è la conclusione cui si è giunti per il maar di Albano.
Le pareti esterne del maar, infatti, degradano dolcemente verso la periferia, con pendenze di pochi gradi, ma nel settore NW passano con continuità a una fascia piatta e allungata, di circa 30 km2, che corrisponde alla Pianura di Ciampino: una morfologia insolitamente pianeggiante, in quanto le pendici dell’intero vulcano sono state profondamente incise durante l’ultimo periodo glaciale e conservano ovunque tali forme. La morfologia è stata prodotta dal colmamento di un precedente reticolo di valli da parte di numerosi lahar, traboccati dall’orlo settentrionale del maar di Albano in tempi recenti.
Il Peperino è stato largamente usato in campo edilizio, sin dai tempi dei Romani. Nei dintorni di Marino si conservano i tagli delle numerose cave aperte nel grosso spessore della vulcanite prodotta dal maar di Albano.
L’area era stata individuata già nel 1885 da Ponzi, che l’aveva denominata Tavolato, ma in seguito era stata totalmente ignorata: proprio dalle recenti ricerche in quell’area “ritrovata” è venuta una scoperta inaspettata e di grande importanza: le datazioni radiometriche di un paleosuolo ricoperto da uno degli ultimi lahar hanno fornito un’età di 5800±100 anni fa, in buon accordo con alcune conclusioni fornite da recenti ritrovamenti archeologici (insediamenti della prima età del Bronzo coperti da depositi di flusso).
Un tratto del ripido margine interno del maar che ospita il Lago Albano, in corrispondenza del settore settentrionale della struttura, quello topograficamente più basso. Al di sopra di tale settore sono traboccati i lahar che hanno dato origine al Tavolato, l'ampia pianura che si vede al di là dell'orlo, in parte occupata dalle piste dell'areoporto di Ciampino.
Eventi catastrofici di lahar sono stati attivi, perciò, in tempi preistorici recenti, se non addirittura storici. Alcuni storici, tra cui Livio, riportano, infatti, notizie di un’improvvisa esondazione del lago Albano avvenuta nel 398 a.C., mentre nel 394 a.C. i Romani regolarono il livello massimo del lago a 293 m.s.m. (75 m sotto il punto più basso dell’orlo del cratere), scavando una galleria di drenaggio verso Ovest per prevenire ulteriori esondazioni.
Le indagine idrogeologiche e geodinamiche hanno messo in evidenza la presenza di CO2 di provenienza profonda disciolta nelle acque del lago, ma in quantità lontana dalla saturazione. Il lago, tuttavia, è da anni sottoposto a continuo monitoraggio.
Qualche timore per un gigante addormentato…
Nel corso di circa 600.000 anni l’attività del Vulcano dei Colli Albani, in termine di quantità di prodotti emessi e di energia delle manifestazioni, è andata diminuendo: l’ultima eruzione è quella del cratere più recente del maar di Albano, circa 36.000 anni fa. Tuttavia il vulcano non è completamente estinto e numerosi specialisti hanno preso in esame il problema sotto vari aspetti.
Periodicamente, sciami di terremoti moderati, con ipocentro tra 3 e 6 km di profondità, si manifestano sotto la zona dei crateri più recenti, dove è stata localizzata una camera magmatica con materiale ancora caldo o in parte fuso); nella stessa area è stato misurato un modesto sollevamento del suolo. Il maar di Albano, come già ricordato, ha prodotto catastrofici lahar in tempi storici. Soprattutto l’intero vulcano dei Colli Albani è sede di un diffuso degassamento di origine profonda (magmatica), con molte zone di emissione continua di gas.
I gas, soprattutto CO2 e H2S, più pesanti dell’aria, si accumulano nelle depressioni causando la morte di animali, come nella tristemente nota località Cava di Selci, sulla Via Appia, e nella Solfatara di Pomezia.
Sono frequenti, inoltre, le emissioni accidentali di gas sciolti in falde idriche in pressione, raggiunti da perforazioni soprattutto nell’area tra Ciampino e Albano.
L’età recente delle ultime eruzioni, la manifestazione storica di lahar dal cratere di Albano, gli sciami sismici e il sollevamento del suolo hanno portato a concludere che il grande Vulcano dei Colli Albani non è estinto, ma quiescente, per cui viene costantemente monitorato, soprattutto nei confronti dei rischi legati ai processi di degassazione.
…ma anche un’immensa fonte di risorse
Il Vulcano dei Colli Albani come i suoi “fratelli” disseminati lungo la costa tirrenica, dalla Toscana alla Campania, è stato luogo di ripetute interazioni con l’attività antropica.
Già gli uomini di Saccopastore (una località alle porte di Roma, nella Valle dell’Aniene) e del Circeo erano stati testimoni di alcune spettacolari eruzioni, ma gli insediamenti lungo la periferia dei Colli iniziarono nell’Età del bronzo medio-recente, si diffusero nell’Età del ferro (ormai verso il IX-VIII secolo a.C.) e proseguirono con numerosi altri insediamenti, i più importanti dei quali, tra il VII e il VI secolo, sono rimasti attivi in epoca storica, per arrivare senza interruzione all’antica Roma e fino ad oggi.
Il territorio forgiato dal fuoco, rivestito di boschi e ricco di acque, offriva e offre splendide posizioni per abitazioni stabili. La disponibilità di abbondanti materiali, come i tufi litoidi, le pozzolane e le lave, è stata ed è tuttora una fonte inesauribile di risorse per l’edilizia in generale, come pure i travertini (il lapis tiburtinus dei Romani), originati dalla risalita in superficie di fluidi idrotermali connessi con l’attività vulcanica.
Cava di travertino presso Tivoli
E tra le risorse, non meno importanti sono i fertili suoli, derivati dall’alterazione della coltre di prodotti vulcanici, ben noti per l’alto contenuto in potassio: essi alimentano, da tempo immemorabile, gli splendidi vigneti che rivestono sontuosamente le pendici dell’antico vulcano, una vera festa per gli occhi, e non solo…
La seicentesca Fontana dei Mori di Sergio Venturi, a Marino, è stata realizzata in peperino, la tipica roccia vulcanica locale.
Quando nella tradizionale sagra autunnale dell'uva, intorno alla fontana si celebra la vendemmia e si distribuisce il vino del Castelli, frutto dei fertili suoli maturati dai tufi del vulcano, si festeggia il risultato di un solido e ormai sperimentato sodalizio, visto che resti fossili di Vitis vinifera sono stati trovati in terreni dei Colli Albani che risalgono a oltre 6000 anni fa...