Bernard Moitessier e la lunga rotta
Eravamo poco più che adolescenti quando a Plymouth, il 22 agosto 1968, Bernard Moitessier levava l’ancora del suo Joshua (un due alberi lungo 12 metri) per una regata velica intorno al mondo, in solitario e senza scalo, organizzata dal Sunday Times.
Il regolamento era semplice: le barche dovevano salpare da un porto inglese fra il 1° giugno e il 31 ottobre e dovevano tornarvi dopo aver fatto il giro del mondo passando i Capi di Buona Speranza, di Leeuwin e, infine, Capo Horn.
A quei tempi le difficoltà da affrontare erano enormi: non vi era GPS per il punto barca, né attrezzature e materiali paragonabili a quelli odierni; non vi erano provviste liofilizzate e l’acqua da bere era quella piovana.
C’erano venti, freddo, scoramenti e solitudine: banchi di prova per la resistenza umana, corollari dei viaggi oceanici.
L’impresa fu immensa: Moitessier e Joshua percorsero 37.455 miglia in dieci mesi; 29.000 miglia, otto mesi consecutivi, nella zona malfamata dei venti dominanti di ponente, alle alte latitudini dell’emisfero Australe, fra i 40 ruggenti e i 50 urlanti, con burrasche durate fino a 36 ore continuative.
Ma ciò che, al tempo, ci sorprese e incise il nome di Bernard Moitessier nelle nostre memorie fu la sua scelta che ne definì la “lunga rotta”.
Ormai sicuro vincitore della regata, risalendo l’Atlantico per tornare a Plymouth e terminare il suo giro del mondo in solitario, Moitessier comprese che non era l’Inghilterra la sua meta ma Tahiti e la Polinesia.
Abbandonò la gara, rinunciò a premi e vittoria: volse la prua verso Est, doppiò di nuovo il Capo di Buona Speranza, poi ancora Capo Leeuwin e, salutate le coste meridionali della Nuova Zelanda, diresse per Nord-Est e raggiunse Tahiti il 21 giugno 1969.
La sua avventura fra cielo, oceani, venti e vele era stata soprattutto un viaggio alla scoperta di sè stesso.
Si era risolta in un approdo al suo altrove lontano dall’Occidente la sua lunga rotta.