Quem mihi quem tibi
Torno a leggere l’Orazio delle Odi, torno a incantarmi davanti ai suoi versi.
Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati.
Seu plures hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.
Non domandare, non è lecito sapere, quale fine a me quale a te
abbiano assegnato gli dei, o Leuconoe, e non interrogare
gli oroscopi babilonesi. Quanto meglio è accettare quel che sarà,
qualsiasi cosa possa essere!
Sia che molti inverni ci abbia assegnato Giove,
sia che sia l’ultimo questo che ora fiacca contro opposte scogliere il mare Tirreno.
Sii saggia, filtra il vino e dalla vita breve la lunga speranza recidi.
Mentre parliamo, fugge il tempo invidioso:
tu afferra l’oggi, e al domani minimamente credi.
La saggezza e l’esperienza del mondo, la coscienza del tempo che fugge, l’etica e il disincanto, il sorriso affettuosamente ironico, l’aurea mediocritas, il senso della natura.
E, poi, la consapevolezza del valore della sua opera poetica:
“ Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo e più alto della regale maestà delle piramidi,
che né la pioggia che corrode, né il vento impetuoso
potrà abbattere né l’interminabile corso degli anni e la fuga del tempo.
Non morirò del tutto, anzi una gran parte di me eviterà la morte”.
Da Orazio, l’epicureo, una lezione di etica: la poesia, consegnata ai contemporanei, travalica il tempo a contagiare il futuro.