All’origine della cinefilia
Il film come esperienza olistica di (auto)conoscenza dal simbolico al pre-simbolico.
Un film lo si ama, lo si odia, o ci lascia indifferenti. Come una relazione umana, oppure come un romanzo, o un saggio. Deformazione esistenziale di adulti, che gli stessi bambini e adolescenti introiettano nel momento in cui dicono “Questo film parla di…”. Ma i film non parlano, nei film invece “si parla”, cioè si ricevono e si ascoltano parole e suoni registrati.
Altra imperfezione del linguaggio e del senso comune: “La storia di questo film è…”. Ma i film non sono romanzi, nei quali l’elemento narrativo in effetti si afferma prepotentemente, in virtù dello statuto immediatamente semiotico dell’espressione scritta, e nei quali le immagini e le loro connessioni sono costruite esclusivamente dal nostro cervello, a partire dai segni astratti della lingua che inducono reticoli logico-narrativi.
I film invece in primo luogo ci colpiscono, ci capitano sotto gli occhi, trafiggono le nostre orecchie. Riattivano cioè emozioni primarie, puramente sensoriali, che ci riportano a strati primitivi della nostra formazione, ci riconducono al tempo fuori dal tempo dell’infans.
L’estetica del cinema potrebbe essere completamente riscritta come un’estetica della sensorialità, attraverso l’analisi delle dinamiche fisiche e motorie che regolano le reazioni degli spettatori alle figure delineate nell’inquadratura dai movimenti di macchina e dalla regia, pure dinamiche ritmiche che precedono qualsiasi comprensione razionale e simbolica.
Accadimenti e non avvenimenti di una storia. Avanguardia pura.
Però noi siamo adulti, apparteniamo all’“età della ragione” e andiamo a vedere un film (anche se sempre più spesso lo riceviamo a casa, addirittura lo scarichiamo, in qualche modo ci impatta contro…), viviamo cioè un’esperienza parzialmente organizzata, per la quale decidiamo di impiegare tempo e denaro. Gli dedichiamo insomma uno spazio definito all’interno dell’economia della giornata.
Inoltre, gli stessi film hanno inscritto nel proprio linguaggio una regolamentazione del magma visualesonoro, mediante i cosiddetti codici del racconto cinematografico, che storicamente hanno fatto del cinematografo un’arte narrativa e popolare, ben più che un’espressione sperimentale. I film mediocri sono proprio quelli che sacrificano il potenziale esplosivo della luce, dei suoni e del movimento a una mera applicazione di regole finalizzate alla presentazione di una storia, di una sceneggiatura. Principio delle fiction della prima serata di RaiUno, per esempio: voler far conoscere storie esemplari, attraverso una confezione che distrugge ogni singolarità morale ed espressiva
del narrato.
Cos’è dunque che colpisce gli innamorati del cinema? In che modo i film possono essere in grado di riattivare forme vitali primarie (cfr. gli studi di Daniel Stern e Raymond Bellour), emozioni pre-organizzate (Antonio Damasio), all’interno del sistema del racconto?
Dialogandoci, senza esserne assorbiti, proprio come avviene in ogni dialogo autentico. Le grandi storie sono quelle che contengono al loro interno – cioè nel proprio dispositivo estetico, al di fuori di ogni assimilazione di genere – la dinamite che fa esplodere il rischio della solita storia, dato che ogni racconto solo racconto è sempre lo stesso racconto, a partire dai miti archetipici.
Lynch (costruzione di ricorrenze e somiglianze puramente figurali e cromatiche e di ambienti sonori autonomi), Tarkovskij (ritmo interno e vitalità degli elementi inquadrati), Mizoguchi (ritmo dato dai movimenti di macchina rispetto a movimenti minimali e intensissimi all’interno dell’inquadratura), Kubrick (decostruzione del principio costruttivo del montaggio classico), Sokurov (estenuazione cromatica degli ambienti), Von Trier (parossismo dei movimenti materici della macchina a mano), Kieslowski (rispondenze tonali e sonore tra elementi diversi del racconto) sono autori i cui film lasciano sempre uno “spazio vuoto”, enigmatico, che gli spettatori sono soliti attribuire esclusivamente a una concatenazione degli eventi che sembra non concatenarsi perfettamente, ma che in realtà ha a che vederecon l’accentuazione di un elemento espressivo, formale, stilistico delle loro opere. Cioè, di tutto ciò che riguarda il cinema come messa in forma di elementi puramente sensoriali: immagini luminose in movimento
e suoni.
Chi è dunque il cinefilo, l’innamorato del cinema, colui che sacrifica il tempo scivolando nel tempo di uno schermo che lo sovrasta? Tante potrebbero essere le risposte. In primo luogo è qualcuno che ha già sentito raccontare tutte le storie, e che ora ricerca soltanto la storia intima di se stesso, vuole ritrovare uno spazio (s)conosciuto, dei movimenti della luce, dei corpi che si avvicinano e si allontanano, dei rumori concreti, tutto quel mondo che proliferava intorno a lui nei primissimi mesi della sua vita, prima che si fosse costruito in un’identità simbolica. Il piacere di prima dell’identità, quasi non si era nessuno e si era in tutto (taoismo?). L’innamorato di cinema è insomma un innamorato tout
court, colui che dimentica le leggi sociali e morali del mondo per dissolversi nell’oggetto del suo desiderio, costituendo in tal modo un unico soggetto.
Ma non si tratta di un amore puramente fusionale, dimentico di sé. Al contrario, esso nasce e si intensifica grazie a un’approfondita conoscenza formale dell’oggetto-soggetto, del suo modo di muoversi (elementi cinetici: movimenti di macchina, gioco teatrale degli attori sul set), di parlare e di essere sonoro. È un amore che si situa nella storia del cinema, e che da essa parte per ricostruire una storia personale.
L’abitatore un po’ cannibale dei festival o delle retrospettive - ma anche il semplice cinefilo - è qualcuno che ricerca la rêverie di una durata ininterrotta con se stesso, in modo tuttavia non solipsistico, bensì ritrovandosi in oggetti esterni di conoscenza. Qualcuno che vuole regredire alle forme vitali o alle emozioni primarie, che prova sorpresa (in primo luogo), gioia, tristezza, disgusto, che non si interessa al dopo, alla socialità, ai rapporti tra ipersonaggi, ai sentimenti. Il linguaggio gli serve cioè come punto di partenza verso una semplicità quasi assoluta, verso il momento germinale di sé.
Quando siamo al buio insieme a un film possiamo compiere un percorso interiore che può contribuire a dare una forma estetica alla nostra vita, alle nostre emozioni e relazioni. È un’esperienza di nutrimento olistico, che riguarda il nostro essere umani.