• OFFICINA LETTERARIA
  • 3 Marzo 2015

    Dancing Skeletons in Lucania

    Immagini allucinogene e svuotamenti di identità culturali: Nine poems in Basilicata di Antonello Faretta.

    Alcuni film si presentano come degli strumenti teorici, perché riescono a mostrare con “nuda consapevolezza” i propri presupposti estetici e percorsi poetici. Spesso ci riescono perché sono in grado di prefigurare le reazioni emotive degli spettatori, costruendo la propria estetica su una sensorialità “esibita” dell’immagine.

    In casi privilegiati, essi estendono la “corporeità” dell’immagine alla corporeità dei linguaggi messi in gioco e fatti reagire tra loro, in una dinamica sinestesica. In queste opere l’emozione fa rima con contaminazione, e il corpo linguistico moltiplicato del film interagisce con il corpo dello spettatore, a sua volta “moltiplicato” nei suoi stimoli sensoriali. La contaminazione dei linguaggi si situa cioè, paradossalmente, a un livello pre-cognitivo, vitale. È quanto avviene, per esempio, in Nine poems in Basilicata1, il “poetry film” che Antonello Faretta, giovane cineasta di Potenza2, ha dedicato alle performance del poeta newyorkese John Giorno3.

    Nine Poems è stato definito dal regista un “libro in forma di audiovisivo”4: si tratta di un testo aperto all’“ascolto visivo” della poesia di Giorno. Un tale oggetto estetico prefigura una “diversità culturale” in primo luogo dello stile, dal momento che fonda la propria espressività sulla potenza pre-simbolica della parola parlata, sfidando le leggi del significato denotato e del racconto che orientano e demarcano, limitandola, la nostra conoscenza del mondo. I “film parlati” della storia del cinema, quelli di Guitry e quelli di Cocteau per esempio, fino ai “moderni” Straub e De Oliveira, sono attraversati da un “ça parle” che ci riporta indietro nel tempo della nostra umanità linguistica e della nostra storia personale di individui.

     

    Tuttavia, se la poesia parlata, o meglio la poesia performata, com’è concepita la poesia di John Giorno, i suoi oggetti sonori “pop” che decontestualizzano la concreta ripetitività del linguaggio quotidiano, evocano istantaneamente il magma polimorfo delle forme dinamiche vitali, gli affetti primari che ci introducono al mondo5, il cinema con la sua pregnanza semantica, la sua narratività intrinseca difficilmente può perdere di senso, trasformarsi in suono, in avverbi della durata, in affetti inconclusi. Difficilmente può essere “amodale” e prefigurare una percezione sinestesica, mostrare ad esempio questi versi scritti da Giorno, o meglio pronunciati prima di essere scritti, secondo la sua tecnica sperimentale: “I smell you/with my eyes,/taste you/with my ears/feel you/with my nose,/see you with my mouth,/hear you/with my tongue”6.

    Forse il cinema può avvicinarsi a tale limite “asemantico” allorché utilizza la sostanza sonora della poesia per far “esplodere” l’inquadratura, quando quel buco nero è gettato all’interno della rappresentazione come un’irriducibilità che perpetuandosi come continuum sonoro rende non più familiare la visione (l’opera di Marguerite Duras ne è un esempio estremo). La diversità culturale diviene allora estraneità al mondo dello sguardo occidentale, sua distruzione e ricomposizione seconde altre leggi, operazione di svuotamento e di ricombinazione, di ricerca di un’armonia sonora.

    Le riprese in dvcam e super8 accompagnano le performances di Giorno effettuate in diversi borghi della Lucania tra il 2004 e il 2005, mentre il poeta era impegnato nella ricerca dei luoghi d’origine dei suoi antenati. Una ricerca di identità dunque, affermata attraverso la testimonianza paradossale dei versi di derivazione pop art “espirati” su una terra che appare sottratta a ogni storicità. Così la pietra dei borghi lucani, la roccia maestosa delle Dolomiti della Basilicata appaiono affascinanti sepolcri a loro volta seppelliti dalla vitalissima performance vocale-gestuale. La parola brucia e vaporizza il referente profilmico. Il paesaggio immutabile appare trasfigurato dai versi, il cui colore sonoro si fonde con il respiro del vento e i canti degli uccelli, come in una nuova creazione del mondo generata da un soffio vitale.

     

    Su questo contrasto “identitario” si fonda il gioco del film, nella dinamica di uno svuotamento indotto da un montaggio audio-visivo che crea un antagonismo tra l’immediatezza dell’emozione poetica e le identità culturali rappresentate nell’immagine. Tale svuotamento identitario si estende poi alla stessa performance, con la mise en scène che tende ad astrarne continuamente l’energia, sotto l’influsso del buddismo tibetano zen (praticato da Giorno) e della sua aspirazione alla liberazione e al vuoto.

    L’estetica di Nine poems in Basilicata è interamente protesa verso questa ricerca di svuotamento e di riscrittura, costituendosi a sua volta come una performance visuale, un viaggio di voce e di paesaggio combinati in una deflagrazione che porta alla nascita di un nuovo cosmo sul volto di John Giorno, che il regista ha definito proprio un “paesaggio”, ma che - nel momento stesso in cui viene inquadrato - dà luogo a una dissoluzione definitiva del quadro-cornice del film, o, meglio, il quadro diviene il volto stesso nella sua imprevedibile mutevolezza.

    Il film sulle performance è dunque sua volta una performance, a partire dalla scelta del regista di elaborare un’estetica di effetti visivi quasi interamente realizzati in macchina (mentre, in apparente contrasto, l’elaborazione del soggetto era avvenuta attraverso una complessa ragnatela di riprese che aveva preceduto il momento del tournage vero e proprio, come una scrittura in progress della visione). Il nucleo del processo creativo risiede così in un “presente continuativo” della ripresa, anche in modalità radicali, come testimoniato dalla decisione di scoprire i versi di Giorno nel momento stesso della loro pronuncia, dato che Faretta aveva deciso di presentarsi vergine all’incontro con i poems poi raccolti – in contemporanea con il film - nel volume La saggezza delle streghe (The Wisdom of the Witches7).

    Questa ispirazione di principio ha implicato un perfetto affinamento del momento fenomenologico e riproduttivo dell’incontro con la performance, che diventava il materiale sul quale lavorare in presa diretta. La scoperta progressiva di questo materiale ha richiesto un numero molto elevato di ciak, nella ricerca di una semplificazione espressiva della fase “teatrale” a vantaggio della riscrittura cinematografica.

    Sempre in quest’ottica di “semplificazione”, sono presenti numerosi movimenti astratti della cinepresa, come “sintetizzati” dalla tecnologia digitale, per esempio nell’episodio di Venosa, dove l’elaborazione di panoramiche a schiaffo in corrispondenza di alcune accelerazioni ritmiche della poesia ha la funzione di azzerare, come ha detto il regista8, la distanza tra chi filma e chi è filmato, rendendo evidente l’effetto di performance nella perfomance che struttura l’intera operazione.

    Al tempo stesso viene attivato uno svuotamento del “pieno” della recitazione di Giorno, ponendo i presupposti per un’impressione di luce vacua nel ricordo futuro dello spettatore, come se il soffio poetico si fosse dissolto in un territorio liberato dalla forma. Così, tra le diverse astuzie utilizzate dal regista, veniva fatto credere a Giorno di essere inquadrato da una cinepresa, mentre veniva catturato da un’altra, come una sottrazione di principio, spinta al momento fondativo dell’operazione cinematica e tesa a eliminare l’immediatezza del rapporto performer-pubblico. Decisione radicale, se si pensa a ciò che scriveva William Burroughs: “le perfomances “live” di John sono indimenticabili: si contorce, suda, urla e geme, e ci si dimentica di avere di fronte un uomo, perdendosi in un flusso di parole provenienti dall’inconscio”9. Come se la parola dovesse “risplendere per bruciare”, parafrasando il titolo di una recente raccolta di Giorno10, o, meglio, come se a dover bruciare fosse il corpo che pronuncia quella parola.

    Ma al cinema non c’è corpo reale, e il reale del corpo parlante non può che passare attraverso l’unico elemento paradossalmente “reale”, cioè il suono registrato, questo strano oggetto concreto. L’immagine inquadrata brucia così grazie al suono non inquadrabile, i cui punti di fuga sono delle linee di forza invisibili. Se il corpo di John urlante, gemente, sudante appare riassorbito nella fittizia profondità dell’immagine, rimane la sua poesia sudante, gemente, urlante a squarciare, attraverso una dimensione di vuoto, l’apparente pienezza dell’immagine, e le sue leggi di organizzazione formale e plastica. Nine poems in Basilicata prefigura così una diversità culturale rispetto alla tradizione rappresentativa del cinema.

    La concentrazione stilistica del film sui versi di Giorno fa sì che la sua poesia performativa generi nella mente dello spettatore l’immagine di azioni puramente ritmiche che movimentano l’immagine sovente fissa. Si crea così un’immagine stratificata nella quale si crede di vedere ciò che si immagina e si ascolta ciò che si vede. La diversità culturale di una simile immagine “multimodale” produce un effetto di straniamento: si potrebbe dire che nasce un’immagine allucinogena, come quella provocata dai semi del bad tree mangiati dalle beautiful people-hippies in uno dei più bei poemi di Giorno11.

    La poesia performativa si esprime dunque in primo luogo a livello ritmico, in un suono danzante, come i dancing skeletons di uno dei poems12, come l’energia di corpi che devono consumarsi e illuminare bruciando: sono azioni governate da leggi fisiche, pure forze emotive che agiscono sull’immagine a un livello intensivo, pre-rappresentativo, di danza ancestrale legata alle forze naturali.

    Il corpo del performer è il centro gravitazionale intorno al quale si costruisce l’inquadratura e dal quale emana la luce della sonorità poetica. Talvolta questa organizzazione iconica del piano è assecondata da una struttura acustica affine: per esempio a Lagopesole, dove il soffio della poesia si diffonde nell’ambiente cavo dando luogo a un’eco - intensificata dalla registrazione - che rivela nitidamente il pieno e il vuoto connaturati a quella parola (così come l’inquadratura è in chiaroscuro, con il corpo di Giorno nell’ombra e l’ambiente circostante avvolto nella luce che sembra irraggiata dai suoi versi). Il soffio poetico dissolve la staticità del monumento, segno di identità culturali trascorse e come trattenute nel bardo13 della Storia. Nel caso di Venosa, invece, il monumento è già stato scoperchiato14, e i versi di Giorno possono celebrare la distruzione delle nazionalità e della proprietà, accompagnati da un movimento “estatico”, di salto – letterale - verso il vuoto del cielo.

    Tra gli indici stilistici più significativi del confronto – e dell’autonomia estetica – tra il film e la performance vi è la ricorrenza di tableaux vivants, la cui fissità “accompagna” la figura della ripetizione, così importante nella poesia di Giorno. La fissità diviene allora luogo che ospita l’emergenza incessante di figure sonore che amplificano e decostruiscono i limiti della rappresentazione, verbale e cinematografica; parola formulare che, nell’episodio di Tricarico, è echeggiata dalla registrazione sonora. Attraverso la ripetizione la parola si purifica dall’uso quotidiano, il suono si palesa nella sua vacuità, come un nirvana del linguaggio. Riflettendo-riproducendo questa pura parola sonora l’immagine cinematografica si dà come piena e vuota, rappresentativa e astratta, autentico medium fra la terra e il cielo, eating the sky, come ha scritto Giorno15.

    La parola crea immagini vivide e vuote del mondo, essa è energica eppure sussurrata, lampo vigorosamente percepito subito dissolto. L’immagine, il racconto nascono così da emozioni puramente sonore destinate a una percezione pre-cognitiva e in esse tornano a dissolversi, cosicché le inquadrature del film non sono altro che quadri immaginari attraversati – mai occupati – da forme vitali che sono forme poetiche. I colori delle parole sono lasciati nella loro irrapresentabilità e la memoria dell’immagine del film che rimane a distanza di tempo è un “gioco di vuoto e di chiarore”; parola di transito, di presenti che fuggono in un’illusione prospettica.

    L’estetica del film si fonda proprio sulla dialettica tra inquadratura e costruzione prospettica e loro distruzione-svuotamento sonoro ad opera di una parola-azione che crea un’intenzionalità-direzionalità tesa a dinamizzare e a trasformare la statica realtà rappresentata. La dimensione ritmica dissolve qualsiasi forma codificata della visione. Lo spettatore sdrucciola nel suo vedere. Si crea così un corpo estetico che fa tutt’uno con il corpo moltiplicato di una percezione spettatoriale che non ritrova più i suoi codici di rappresentazione narrativa e prospettica del mondo e si disperde in un allucinato ascolto visivo.

    In Down Comes the Rain (2008)16, decimo poetry film realizzato poco più di un anno dopo i Nine Poems, si assiste allo svuotamento della stessa parola poetica, separata dal corpo che la pronuncia, che le dà forma, e immersa letteralmente nella superficie marina che la dissolve, al pari del corpo di John che naviga nudo in quell’acqua, in una rievocazione affettuosa e ancor più vitalistica dello Sleep wharoliano. La parola poetica si fonde con un territorio “amodale” che rievoca il grembo materno, regione protetta ma ricca di stimoli sensoriali.

    E il cinema raggiunge questa ri-combinazione immergendosi a sua volta, in una “trance subacquea”17 (grazie a una custodia impermeabilizzante applicata alla cinepresa e al microfono), nel mondo sotterraneo abbinato al regno misterioso della civiltà indiana dei Naga, regno poetico, come la scrittura di Giorno, da lui stesso paragonata a un nuotare trattenendo il fiato, esperienza di educazione respiratoria e visionaria. Così la voce fuori quadro del perfomer è abbinata ai suoi stessi movimenti natatori e la cinepresa accompagna quei percorsi rendendone evidenti i minimi scarti ritmici come fossero accelerazioni del verso poetico, forme vitali che definiscono un’apprensione immediata del mondo. La poesia – che la riproduzione cinematografica valorizza qui nella sua specificità - è questo nuotare, o questo dormire, in un regno sotterraneo nel quale ci viene chiesto solo di ambientarci, sposandone le forme magiche e mutevoli che riceviamo in dono.

    In G. Anaclerio, Il corpo e il frammento, Bulzoni, Roma 2012, pp. 118-124

    Note Bibliografiche

    1 Sinossi del film. Sono filmate nove performances relative ad altrettante poesie del poeta italo-americano John Giorno in diverse località della Basilicata, terra d’origine della sua famiglia. I poems interpretati da Giorno sono: 1. JUST SAY NO TO FAMILY VALUES (Dì un Bel NO ai Valori Famigliari); 2. EVERYONE GETS LIGHTER (Ognuno si fa Luce); 3. THERE WAS A BAD THREE, (C’era un Alberaccio); 4. WISDOM OF THE WITCHES (La Saggezza delle Streghe); 5. THE DEATH OF WILLIAM BURROUGHS (La Morte di Williams Burroughs); 6. DEMONS IN THE DETAILS (Demoni in Dettaglio); 7. NOTHING SUCCEEDS LIKE EXCESS (Niente ha Successo Come l’Eccesso); 8. NO GOOD DEED GOES UNPUNISHED (Nessuna Buona Azione Resta Impunita);. WELCOMING THE FLOWERS (Dando il Benvenuto ai Fiori).

    2 Faretta è già autore di una decina di lavori multimediali pluripremiati nei festival internazionali e fondatore di una piccola ma vivacissima casa di produzione, la Noeltan Film Studio, che ha organizzato workshop internazionali presieduti da registi come Kiarostami, Panahi, Aristakisjan.

    3 John Giorno è stato, come ha scritto Jimmy Costantino, “la superstar dormiente di Sleep” (Nota bio-bibliografica, in John Giorno, La saggezza delle streghe. The Wisdom of the Witches. Poemi 1994-2004, Nuovi Equilibri, Viterbo 2006, p. 116) di Andy Warhol, è stato il grande amico di William Burroughs - del quale conserva ancora le reliquie a New York - e soprattutto un artista totale, che ha attraversato i territori della multimedialità con i “Giorno Poetry Systems”, sistema di produzione indipendente creato nel 1972 che ha fatto della poesia un’esperienza visuale-sonora registrata su decine di dischi e video, degli ipertesti ante litteram. La poesia è concepita da Giorno come un tutt’uno con la vita, e come questa è un’attività che va costantemente performata, che non può esistere al di fuori dell’hic et nunc della performance.

    4 Antonello Faretta, Nine Poems, Nine Locations, in Nine Poems in Basilicata. Press Kit, p. 3.

    5 Cfr. supra, pp. XYZ

    6 Citazione da Welcoming the Flowers (Diamo il benvenuto ai fiori), in John Giorno, La saggezza delle streghe, cit., pp. 86-89. Nella traduzione di Domenico Brancale: “Io t’annuso/cogli occhi,/t’assaporo/con le orecchie,/ti avverto col naso/ti vedo con la bocca,/t’ascolto/con la lingua”.

    7 Cfr. nota XYZ

    8 Facciamo riferimento a un’intervista personale da noi realizzata nel novembre 2011.

    9 William S. Burroughs, Introduzione “Voci nella tua testa”, in John Giorno, Per risplendere devi bruciare, Giunti Citylights, Firenze-Milano 2006, p. 5

    10 Cfr. la nota precedente.

    11 Cfr. John Giorno, There was a Bad Tree, in Id., La saggezza delle streghe, cit., pp. 32-49.

    12 Cfr. John Giorno, Demons in the Details, in ivi, pp. 58-69.

    13 Il bardo è il limbo buddista.

    14 Si tratta della celebre abbazia “incompiuta” della SS. Trinità, di epoca medievale.

    15 Cfr. John Giorno, No Good Deed goes Impunished, in Id., La saggezza delle streghe, cit., p. 78.

    16 Questo decimo poetry-film è costruito intorno alla declamazione dell’omonimo poem di Giorno, filmato mentre performa all’interno del Castello di Isabella Morra a Valsinni (MT) e mentre nuota nudo nel mar Tirreno a Maratea.

    17 Questa espressione è stata usata dallo stesso Faretta.