Finzione: la soluzione dell'enigma
La sola ragione d’essere di un romanzo è di scoprire quello che solo un romanzo può scoprire.
Un romanzo che non scopre una porzione d’esistenza fino ad allora ignota è immorale.
(Milan Kundera, L’arte del romanzo)
Quante volte un teatro di marionette ci ha picchettato le coordinate marcate e sintetiche della “Comedie Humaine”?
Pupazzi vestiti con vizi, paranoie, paradossi che una volta posti in “situazione” interagiscono tra loro secondo una precisa reazione alchemica (“fisica esoterica”, attenzione, e non matematica)
Stesso gioco pratica la letteratura. Lo scrittore getta i suoi burattini su carta, impregnandoli di carne e d’inchiostro. Ovvero, li umanizza. Li carica di dettagli, di ombre, li scarnifica e li caricaturizza. Sussurra all’occhio del lettore piccole storie, chiedendogli quella fede poetica che pretende una “volontaria e momentanea sospensione della credulità”, come dice Coleridge. Ma aldilà del patto di finzione, si nasconde per poi rivelarsi, uno spaccato di verità.
Quei racconti fantastici, surreali o veristici qualsivoglia, che si dipanano lungo quelle righe che la filosofia e la psicologia ancora non hanno saputo anatomizzare, ci rivelano la parola che sfugge ai nostri dogmi. La verità viene scoperta attraverso la finzione. È per questo motivo che nella letteratura ci si rifugia spesso: per educare la nostra ragione a stare al mondo.
Proust sosteneva che l’opera letteraria è una “sorta di strumento ottico che consente al lettore di discernere ciò che forse, senza libro, non avrebbe osservato dentro di se. La lettura acuisce la percezione, anzi fa si che si cerchi di ritrovare nelle cose, che se ne impreziosiscono, il riflesso che su di esse ha proiettato la nostra anima” formata dalla lettura.
È proiettando quindi l’io sullo schermo della nostra psiche che si scoprono le sue ernie.
Il lettore raccoglie le istanze psicologiche dell’autore, le fagocita e le avvia verso un processo di metabolizzazione chiamato conoscenza.
Si estende una regio dissimilitudinis, la terra ferma del nostro universo interiore “dove la x non significa x e la y non significa y se non provvisoriamente, dove le cose sono e non sono quel che sembrano, dove la tesi implica l’antitesi e il desiderio equivale alla repulsione. È una regione che si fa beffe dei nostri concetti e continua a rigirare le carte in tavola, a depistarci a ingannarci” (Leonard)
La letteratura, quando diviene letteratura in potenza, letteratura come vita, è cruenta, consolatoria, inquietante, accompagna autore e lettore su un ring esistenziale dove i colpi sono accusati quando la menzogna si scopre di verità.
È per questo che la poesia per essere verità è tensione espressiva. Per Carlo Bò, un’opera d’arte che non ricerchi la verità, viene immediatamente esautorata, tradita.
“Canto di me stesso”- W. Whitman
Camerado, questo non è un libro,
chi lo tocca, tocca un uomo,
(è notte? Siamo soli?)
è me che hai afferrato o che afferra te,
io balzo dalle pagine fra le tue braccia.