In media corpora: la sintonizzazione dell’azione e dell’emozione, tra rispecchiamento e vitalità, nel cinema dei fratelli Dardenne
Vi sono frammenti di film nei quali lo spettatore assiste alla visione di corpi di personaggi colti in azione: in questi istanti, più o meno prolungati, egli si trova, in una reazione parallela, colpito dall’emozione.
Questo risultato estetico-rappresentativo deriva dalla combinazione tra la componente figurale-sensoriale dell’immagine filmica messa in quadro e la valenza narrativa associata a un corpo in azione, cioè a un corpo di cui lo spettatore è suscettibile di rispecchiare le azioni a livello cerebrale.
Tale meccanismo passa, venendone influenzato in maniera decisiva, attraverso il dispositivo cinematografico (fattore differenziale per la ricezione di un film rispetto alla percezione abituale dei fenomeni e barrage contro ogni approccio ingenuamente cognitivista), “inglobato” da opere che ne fanno un elemento semantico del proprio stile.
Il cinema dei fratelli Dardenne associa in maniera efficace ed estrema queste due qualità connaturate all’immagine del film di finzione: l’emozione “primaria” e il racconto, con la prima che “costruisce” il significato narrativo (invece di esserne la mera applicazione). Esso appare così un esempio quasi paradigmatico rispetto al discorso teorico attuale sul corpo e sulle emozioni “del” cinema. Un discorso che richiama in primo piano il rapporto tra lo stile del film e le reazioni degli spettatori, appoggiandosi sulle ricerche condotte nei campi della psichiatria e delle neuroscienze, nel cui solco ci muoveremo in questo saggio.
Raymond Bellour, che ha dedicato al “corps du cinéma” un volume comprendente saggi che sono il risultato di studi di circa un decennio1, ha mostrato la via di un’approfondita interazione tra l’analisi filmica e lo studio delle dinamiche affettive primarie, queste ultime da individuare all’interno delle “pieghe” dei testi2, cioè di quegli interstizi dove il senso si sottrae all’ovvietà (in primo luogo semiotica), per aprirsi ai percorsi irregolari dell’emozione e dello stile. In questa prospettiva, l’emozione appare un campo di forze che attraversa sottilmente il corpo a corpo film-spettatore, dandosi come una modalità stilistica affidata a strategie di messa in quadro suscettibili di riattivare, riscrivendole in modalità analogica, le emozioni originarie, gli sterniani affetti vitali3 (nell’ultimo saggio4 “forme vitali”) della primissima infanzia, nonché il modello percettivo “amodale” nel quale si situano.
Bellour elabora così una sorta di mediazione tra l’intensità della figura, la nozione teorica che meglio ha saputo dispiegare l’inconscio dell’emozione visuale5, e la funzione narrativo-rappresentativa che fin dalle origini ha determinato la comunicazione delle pellicole di finzione. A questo proposito, è interessante soffermarsi brevemente sul modo in cui Bellour articola teoricamente i rapporti tra la macchina da presa e le azioni dei personaggi attraverso l’individuazione di una “messa in piega” [«mise en plis»] dalle risonanze stilistico-temporali sottilissime. Un rapporto di totale implicazione, nel quale sembra impossibile scindere i due piani, quello stilistico e quello narrativo, almeno dal punto di vista della reazione emotiva degli spettatori: «quando messa in scena e messa in piega coincidono, si giunge al sublime, la cui impressione è trasmessa, come una vibrazione, all’interno del corpo che vede»6, scrive Bellour analizzando Oyû-sama di Mizoguchi (1951; [La signorina Oyu]). Il «dispiegarsi incessante» degli affetti vitali all’interno del piano, «dalla messa in quadro ai movimenti che lo agitano, all’interno dei suoi bordi o negli spostamenti della macchina», così come nel concatenamento tra i piani, accompagnerebbero sempre gli «affetti psicologici», quelli «che sostengono le identificazioni ai personaggi e alla finzione»7. «Tra la rete di emozioni intensive e l’intensità delle identificazioni narrative» vi sarebbe proprio un «rapporto di implicazione»8. Inoltre, «durante una scena intensa, in cui a emergere sono i sentimenti tra gli esseri, e col pretesto di un realismo percettivo legato al proseguire dell’azione, le minime oscillazioni di macchina sembrano portare al colmo lo stato emozionale attribuito ai personaggi»9. Insomma ci sarebbe «(quasi) sempre consustanzialità tra immagine e racconto, quali che siano i modi dell’immagine come del racconto, dal più organico cinema classico alle più fluttuanti disgiunzioni del cinema moderno, fino alla stragrande maggioranza delle opere del cinema d’avanguardia o sperimentale»10.
Questo rapporto di implicazione “emozionale” tra “azione del film” (attraverso la mdp) e “azioni dei personaggi” può condurci a riflettere su un altro paradigma teorico che chiama in causa il legame azione-emozione, quello sviluppatosi in seguito alla scoperta dei cosiddetti “neuroni specchio”11. Partiremo da un celebre articolo nel quale si tenta un’applicazione di quella scoperta al campo dell’arte: Movimento, emozione, empatia (2008) di David Freedberg e Vittorio Gallese12. Qui il rispecchiamento di un’azione riguarda tanto l’oggetto della rappresentazione, quanto il gesto dell’artista, la narrazione come la sua elaborazione formale.
Nella loro ipotesi relativa alle reazioni empatiche alle opere d’arte collegata ai neuroni specchio e al concetto di “simulazione incarnata” (proposto da Gallese13), i due studiosi prendono dunque in esame
«due componenti dell’esperienza estetica coinvolte nella contemplazione di opere d’arte visiva (nonché di altre immagini che non rientrano necessariamente in quella categoria): 1. la relazione fra emozioni empatiche imitative nell’osservatore e il contenuto rappresentativo delle opere in termini di azioni, intenzioni, oggetti, emozioni e sensazioni descritte in un certo dipinto o scultura; 2. la relazione fra emozioni empatiche imitative nell’osservatore e la composizione dell’opera, in termini di tracce visibili dei gesti creativi dell’artista, per esempio una modellatura vigorosa dell’argilla, un’energica distribuzione della pittura, un tratto veloce del pennello e, più in generale, i segni prodotti dal movimento della mano. Entrambe le componenti sono sempre presenti, seppure in proporzioni variabili»14.
Dunque sarebbero in gioco, nell’opera d’arte visiva, in particolare nella pittura, due oggetti di «reazione empatica imitativa nell’osservatore», quello legato ad «azioni, intenzioni, oggetti, emozioni e sensazioni rappresentate, descritte», e quello legato alle «tracce visibili del gesto dell’artista» (soprattutto gesto della mano nel pittore). Occorre però sottolineare come, sorprendentemente, il cinema non sia neppure nominato in questo articolo esplicitamente dedicato ai rapporti tra emozioni empatiche e arti visive (laddove sono almeno menzionate la scultura e l’architettura). La sorpresa è ancora maggiore se si osserva che i due studiosi fanno più volte riferimento alla (semplice) evocazione del movimento attuata dalle arti figurative (quella che André Bazin, in riferimento all’arte barocca, chiamava «catalessi convulsiva»15, che il cinema avrebbe liberato).
Secondo la nostra ipotesi, liberando il movimento dell’immagine inquadrata, ai due livelli profilmico e filmico, il cinema è in grado di suscitare nei confronti di esso le emozioni empatiche dello spettatore, quando tale movimento viene percepito come orientato a uno scopo. Lo scopo può essere denotato, come per le azioni diegetiche visualizzate dei personaggi, oppure stilistico, riferito alle modalità di messa in quadro del film strettamente legate alla tecnica e al linguaggio cinematografici e finalizzate a suscitare emozioni. Semplici emozioni intensive? Riteniamo che queste si accompagnino a un tipo di emozioni “metalinguistiche”, affini a quelle che Bellour definisce “di dispositivo”, tributarie cioè «di tutti gli effetti […] attraverso i quali la macchina-cinema si inserisce nel quadro delle visioni che suscita»16 (dunque esclusivamente metacinematografiche, legate appunto al “dispositivo”). A nostro avviso ogni emozione che produca l’incontro della “messa in piega” e della messa in scena – riattivando così gli affetti vitali - rientra in un ambito “metalinguistico” o “metafilmico”, in quanto la presenza di una “messa in scena” non può non chiamare in causa una conoscenza preliminare del linguaggio cinematografico nello spettatore che, oltre a essere un bambino17, sia anche un cinefilo (non tutti gli adulti si emozionano di fronte ai film di Mizoguchi…).
Ma in che senso si può parlare di “gesto del cinema”? In effetti, lo spettatore è chiamato a reagire a un’azione e a un’emozione combinate, prodotto dell’interazione fra azione ed emozione filmiche (derivanti soprattutto dai movimenti e della posizione della mdp e dal tipo di montaggio) e azioni ed emozioni profilmico-teatrali (indotte dal gioco attoriale basato sui dialoghi e la sceneggiatura). Le prime assumono visibilità tangibile – quasi come uno schizzo di vernice o uno squarcio nella tela18 - quando l’“azione estetica” della mdp rivela una discrepanza rispetto alla finalità narrativa codificata, quando essa “costruisce” il racconto del film. Tale gesto sarà dunque tanto più visibile quanto più percepibile sarà il movimento della mdp (o di un certo tipo di montaggio “sensibile”, che intervenga all’interno del materiale anziché operare un’astrazione) rispetto alla materia profilmica, cioè quanto più tale movimento verrà recepito come vicino a un’attività manuale. Per questo il cinema dei Dardenne, che utilizza assai di frequente la macchina a spalla, nel contempo come un vettore e un rivelatore di azioni ed emozioni, sembra essere un campo di verifica ideale per un’indagine mirante a esplorare il complesso dispositivo di azione ed emozione appena configurato: l’estrema manualità-matericità di quel modo di ripresa pone infatti la questione del rispecchiamento neurale come una questione insieme estetica ed effettuale.
Il corpo dei film dei frères è sia l’oggetto dello sguardo poursuivant e “rispecchiante” della cinepresa19, quasi mimetico, sia la figurazione all’interno di un quadro di intensità corporee suscettibili di riattivare gli affetti (o le forme) vitali dello spettatore. Si prefigura così una duplice dinamica di identificazione, una più costruita e lineare, di tipo rappresentativo, l’altra più indeterminata ed “intensiva”, legata ai procedimenti di messa in quadro. La prima più indirizzata a processi di rispecchiamento neurale20 (ci si domanda costantemente – spesso inconsciamente - come si comporteranno quei corpi alle cui minime démarches assistiamo), la seconda a reazioni emotive meno oggettivabili nel momento della visione ma più resistenti nella memoria per la loro potenza figurale.
Questi due poli si concretizzano in film che appaiono come delle “sceneggiature incarnate”, nel senso che la narrazione filmica del corpo dei personaggi (livello figurale-figurativo) formalizza il tessuto diegetico della storia (livello del racconto, legato al rispecchiamento). I due livelli si presentano quindi come inscindibili. Tale scelta poggia su una poetica e una visione sociale solide e riconoscibili nella filmografia dei Dardenne: il mondo esterno, soprattutto mondo che sfrutta il lavoro sottoproletario, non può che essere analizzato attraverso le minuscole o violentissime reazioni-azioni dei corpi dei personaggi sfruttati, muta misura etica di una società iniqua. I film dei Dardenne sono dei racconti morali della società del lavoro contemporanea: le scelte e i comportamenti degli ultimi passano sempre attraverso le contraintes legate alla mercificazione compiuta nei confronti dei loro corpi21.
Consideriamo due frammenti – tratti da Rosetta (1999; Id.) – nei quali l’azione filmica dà luogo a una narrazione alla quale lo spettatore è chiamato a reagire empaticamente o, al contrario, nel secondo esempio, a bloccare la propria partecipazione affettiva. Come hanno dichiarato i Dardenne22, il personaggio delle loro pellicole sarebbe la storia stessa, nel senso che questa - o, più precisamente, la narrazione - opera le trasformazioni diegetiche normalmente effettuate dal personaggio, quasi in un meccanismo “autoaffabulatorio”23. Tutti i film dei due registi belgi sono, in effetti, storie di corpi in movimento incalzati dalla cinepresa: anche gli snodi salienti del racconto sono integrati all’interno di tale rapporto interamente fenomenico24, al pari dei sentimenti, manifestati esclusivamente dagli atteggiamenti del corpo25.
Queste storie di corpi vivono dunque di una temporalità puramente materica, che quasi non conosce le astrazioni della narrazione, riferite a un tempo e uno spazio “spettacolari”: esse iniziano sempre in medias res o – sarebbe più corretto dire – in media corpora, nella durata già avviata, e destinata a non concludersi mai, di una corporeità perseguitata.
Il prologo di Rosetta appare in questo senso una sintesi emblematica dell’intera cinematografia dei Dardenne, in quanto storia ex abrupto di un corpo: così il brusco attacco di montaggio dell’incipit sul particolare della mano del personaggio (interpretato da Émilie Dequenne) che apre una porta, così il configurarsi di un racconto che non è altro che una successione disperata e rischiosa di movimenti del corpo in spazi filmici e profilmici limitanti. Appena sette inquadrature, - in una sequenza di 2’46” quasi tutta girata in movimento, con la macchina a spalla e violenti stacchi e attacchi di montaggio26 (questi ultimi sempre su particolari del corpo dell’attrice) - che descrivono e formalizzano la rabbia della giovane Rosetta che ha appena saputo del proprio licenziamento dalla fabbrica dove svolge l’apprendistato. Prevale la ripresa in semisoggettiva, rivolta però a uno spazio angusto nel quale la ragazza corre a perdifiato27, incalzata da un magistrale operatore, che instaura un vero e proprio corpo a corpo con i movimenti dell’attrice seguiti da distanza ravvicinatissima, con un cadrage estremamente mosso che non perde mai di vista l’essenzialità dei gesti, cioè le “microazioni” che compongono la sequenza28. Rosetta rivendica, con le sole forze del suo corpo giovane e irruente, il diritto al lavoro, prima contro la collega sospettata di averla denunciata, poi contro il padrone, vero responsabile della decisione, infine, contro i poliziotti della sicurezza sopravvenuti per stanarla dalla toilette in cui si è nascosta per non essere costretta ad abbandonare il suo posto. Tutta la suite delle inquadrature è accompagnata dal respiro spasmodico della protagonista che acuisce il senso di claustrofobia della sequenza, nella quale gli spazi attraversati sono appena evocati, ridotti a una riconoscibilità essenziale di luoghi di disumanizzazione e oppressione, privi di autentica topologia (anche per l’assenza di raccordi narrativi “lineari”).
Il cinema dei Dardenne vive dell’invito pressante e costante rivolto allo spettatore di rispecchiare le azioni e le motivazioni evocate dal movimento dei personaggi. In particolare, Rosetta è un film che gioca sull’emozione contenuta e sull’azione relegata alla sua progettazione, come significato dall’uso ricorrente della semisoggettiva29, tecnica attraverso la quale lo spettatore medita insieme al personaggio sulle possibili azioni da compiere per trarre vantaggio dalla situazione osservata. Tuttavia tali azioni appaiono spesso opache, frammentate, incerte nella loro funzione: esse sono tutte sbilanciate sui movimenti del corpo che le effettua30, cosicché anche lo scopo da perseguire risulta talvolta indecidibile. In altri termini, l’uso frequente e articolato della semisoggettiva acuisce l’ispirazione corporea delle decisioni del personaggio: osservando Rosetta osservare, capiamo che è il suo corpo a indurre la decisione di un’azione nei confronti di un oggetto o di una situazione. Si potrebbe dire che i neuroni specchio dello spettatore agiscano reagendo a un evento nel quale sono chiamati in causa in neuroni “canonici” del personaggio, quelli che studiano in che modo servirsi dell’oggetto guardato.
Le emozioni ricevono invece un trattamento filmico quasi “macchinale”, nel quadro della rappresentazione di una società che tende a spegnere l’umanità degli (aspiranti) lavoratori31. Ad esempio, la vergogna di Rosetta dopo la denuncia nei confronti del compagno di lavoro è espressa mediante una lunga inquadratura composta di cinque microscene - corrispondenti alle ordinazioni dei clienti - che enfatizza la ripetitività32 senza gioia del lavoro nel chiosco, ripetitività profondamente drammatizzata dalla presenza invisibile dello sguardo di Riquet (Fabrizio Rongione), che sembra pietrificare i gesti della giovane nell’a-moralità che li accompagna (assenza di moralità causata dalle condizioni sociali di quel mondo del lavoro). Abbiamo dunque un’inquadratura di 2’19”, nella quale la cinepresa a spalla, attiva in continui micromovimenti, mantiene un’inclinazione obliqua sul primo piano allargato (che diviene talvolta una mezza figura) di Rosetta, che con gli occhi bassi preleva le vivande per i clienti (solo due volte il viso della ragazza esce fuggevolmente dal campo per lasciare spazio al volto di Riquet). La presenza di un sostegno orizzontale inframmezzato fra lei e la cinepresa segna i leggeri spostamenti del quadro, enfatizzando la ripetitività dei gesti del personaggio. Dopo 34” lo sguardo della ragazza verso il fuori campo (in basso a dx del quadro) evoca per la prima volta la presenza dell’ex-amico, che vedremo materializzarsi prima attraverso la voce, infine in un primo piano laterale mentre rivolge uno sguardo fisso verso Rosetta, uscita dal campo, sguardo “prolungato” da un movimento in avanti della cinepresa che reinquadra la giovane (il cui sguardo richiuso su se stesso è mostrato subito dopo per alcuni secondi), dopo che le mani dei due ragazzi si sono incontrate (particolare) per la consegna della cialda (si incontreranno di nuovo per il pagamento).
Ancora una volta sono dei micro-gesti inseriti in una lunga durata a costituire la narrazione e a creare lo spannung della sequenza, che si configura qui nella totale alienazione del personaggio nei confronti dell’attività svolta, come se l’aver ottenuto il lavoro in quel modo lo avesse spossessato di qualunque charme: Rosetta appare una macchina vergognosa (o è fatta apparire così dall’obiettivo macchinale della cinepresa…) sotto gli occhi dell’unica persona con la quale era riuscita a instaurare un rapporto di tipo umano. L’assenza di “gesto” da parte della mdp – la sua “dédramatisation” - corrisponde all’assenza di partecipazione emotiva del personaggio, ridotto a puro oggetto dello sguardo spettatoriale anche quando riveste il ruolo di soggetto diegetico. L’azione e l’emozione (trattenuta…) sono così relegate al solo ambito profilmico, e offerte a una recezione di tipo esclusivamente cognitivo, legata cioè alla comprensione dei fenomeni che si manifestano all’interno del quadro.
Il legame tra il “gesto del cinema” e le reazioni empatiche dello spettatore va dunque concepito come un interrogativo portato direttamente al cuore dello stile filmico, della sua operatività formale, in questo caso del suo dare forma corporea a delle emozioni attraverso l’esibizione del proprio linguaggio, in accordo con uno dei cardini della modernità cinematografica individuati da Giorgio De Vincenti33.
Tale gesto risiederebbe insomma nella concreta incorporazione - attraverso i movimenti di una cinepresa percepibile - degli stati emozionali dei personaggi diegetici. Si opererebbe insomma una saldatura tra ciò che si vede, il prodotto della rappresentazione filmica, e ciò che permette di vedere in termini di procedimento dinamico, di messa in quadro di eventi collegati al movimento empatizzato del corpo. In altri termini, il film opererebbe, attraverso la ricezione dello spettatore, una “simulazione incarnata” delle emozioni attribuite ai personaggi.
Il corpo empatizzante dello spettatore si troverebbe insomma preso nel rapporto tra i due corpi del filmico e del profilmico, con il primo che opererebbe una manipolazione sul secondo, inducendo lo spettatore alla simulazione in una modalità molto più efficace di quella veicolata dalla semplice drammaturgia degli attori. Si assiste insomma a un rapporto dinamico, nel quale il corpo attoriale è modificato da un dispositivo stilistico, come in una sorta di cerimoniale erotico. Nel contempo viene sollecitato il regime “aptico” dello sguardo34, la tattilità delle sensazioni visive legate al movimento, insomma il gesto quasi manuale che forma l’immagine filmica nella percezione spettatoriale.
Sul piano della ricerca psichiatrica, una possibile estensione del sistema dei neuroni specchio al campo stilistico è suggerita da Daniel Stern nel suo ultimo lavoro, Le forme vitali (2010). Nell’ipotesi del ricercatore statunitense, le «forme vitali», o, più precisamente, le «forme dinamiche vitali», sarebbero «le più fondamentali fra tutte le esperienze vissute nell’interazione dinamica con gli altri esseri umani»35. L’«esperienza di vitalità» si fonderebbe su una «pentade dinamica» costituita da «cinque eventi dinamici interconnessi ma diversi sul piano teorico»: «movimento, tempo, forza, spazio e intenzione/direzionalità»36. Essa sarebbe «intrinseca all’atto del movimento. Il movimento (e la sua propriocezione) costituisce la principale manifestazione dell’essere animato e ha un ruolo primario nel trasmettere un fondamentale senso di vitalità»37. Le forme vitali sono definite delle «forze» (l’origine fisica del termine non è casuale), esprimibili attraverso aggettivi o avverbi che si situerebbero «tra le pieghe dell’esperienza, rappresentando il vissuto di una forza in movimento, con un certo profilo temporale e un certo senso di vitalità e direzionalità. Sono legati più alla forma che al contenuto. Riguardano il “come”, la maniera e lo stile, più che il “cosa” o il “perché”»38.
Le forme dinamiche vitali prefigurano dunque una modalità stilistica della percezione e dell’interazione umane, nonché un sistema gestaltico in grado di organizzare in un “testo” coerente e coordinato l’esperienza vissuta, l’esperienza del vivere.
Tracciando un excursus storico delle forme vitali, Stern dedica ampio spazio alle ricerche nell’ambito dei “neuroni specchio”, la cui scoperta ha rivoluzionato le conoscenze nel campo dell’intersoggettività. Osserva Stern:
«Sappiamo che le azioni, in quanto operazioni strumentali, sono codificate in modo efficiente dai neuroni specchio, ma che dire delle forme vitali di queste azioni? Le forme vitali pongono un problema differente sul piano anatomico rispetto alle azioni strumentali, per quanto riguarda la rappresentazione virtuale delle azioni degli altri. Dal momento che conosciamo solo in parte il sistema dei neuroni specchio, potrebbe darsi che una sua funzione sconosciuta sia responsabile delle esperienze vitali dinamiche?»39.
Per sviluppare la sua ipotesi, lo psichiatra statunitense si sofferma su un articolo di Vittorio Gallese e George Lakoff, The brain’s concepts: The role of the sensory-motor system in conceptual knowledge40 (2005), nel quale si afferma che le funzioni relative ai concetti e al linguaggio, lungi dall’essere astratte, sarebbero anch’esse «assemblate nel sistema sensomotorio», nel quale prenderebbero «corpo». Riflettendo sulle modalità di integrazione neurale tra i concetti, i due studiosi individuano l’esistenza, per ogni azione intenzionale (o per la sua simulazione cerebrale), «di tre diversi requisiti che devono essere soddisfatti da tre diversi gruppi di neuroni», riguardanti «l’obiettivo generale dell’azione […], il “modo” in cui l’azione deve essere eseguita […], le fasi temporali in cui si svolge sequenzialmente l’azione»41. Inoltre, i programmi motori sarebbero influenzati da specifici parametri (tra i quali spiccherebbe il «livello di forza» e l’adattamento dinamico e contestuale dell’azione alla situazione presente). Secondo Stern, un’implicazione teorica riferibile alle forme vitali si affaccerebbe tra le pieghe delle riflessioni sul modo e sui parametri, ma le ricerche in tale ambito si trovano ancora alle battute iniziali. In effetti, come dichiara lo studioso, «il mondo dell’arte ha dedicato molta più attenzione a questa dimensione dell’esperienza [quella riferita alle forme vitali] di quanto abbia fatto la psicologia. Ha dovuto farlo, per esprimere i suoni e i movimenti umani in tutta la loro forza e vitalità»42.
In accordo con questa affermazione non si sono proposti in questo saggio degli sviluppi teorici relativi alle discipline scientifiche prese in esame, trattandosi piuttosto di ricercare un’applicazione dei dati e delle ipotesi sperimentali sul piano dell’estetica del film. In quest’ottica, pensiamo che si possa interpretare la “simulazione” attuata dallo spettatore nei confronti dello stile del film, cioè delle modalità espressive legate ai parametri dell’immagine – e in primo luogo dell’inquadratura –, come una sorta di “sintonizzazione” del “cosa” e del “come”, dell’azione manifesta nelle sue intenzionalità (la dimensione “diegetica”) e dei procedimenti stilistici che le danno corpo.
L’integrazione dello stile, delle “forme vitali”, e dell’intenzionalità legata a un’azione, sarebbe insomma resa possibile, a livello estetico, dalla presenza di procedimenti di linguaggio che veicolando un significato narrativo non celino la propria origine discorsiva43. In particolare, il cinema appare un linguaggio privilegiato nell’abbinamento del “come” e del “cosa” nella simulazione dell’osservatore-spettatore, perché l’elemento stilistico può far gioco sui diversi elementi della “pentade dinamica” individuata da Stern come caratteristica dell’esperienza vitale, elementi - definiti non a caso «eventi»44 - che includono in sé la dimensione narrativa: movimento, tempo, forza, spazio, intenzione-direzionalità.
in Giorgio De Vincenti, Enrico Carocci (a cura di), Il cinema e le emozioni. Estetica, espressione, esperienza, Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma 2012
Note Bibliografiche
1 R. Bellour, Le Corps du cinéma. Hypnoses, émotions, animalités, P.O.L., Paris 2009
2 In Le Dépli des émotions (tr. it. in G. Carluccio, F. Villa [a cura di], Il corpo del film. Scritture, contesti, stile, emozione, Carocci, Roma 2006), Bellour fa riferimento al saggio di Deleuze La piega (Torino, Einaudi 2004), nel quale viene ripresa la “percezione nelle pieghe” di Leibniz.
3 Cfr. D. N. Stern, The Interpersonal World of the Infant, Basic Books, New York 1985; tr. it. Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino 1987.
4 D. N. Stern, Forms of Vitality: Exploring Dinamic Experience in Psychology, the Arts, Psychotherapy, and Development, Oxford University Press, Oxford 2010; tr. it. Le forme vitali. L’esperienza dinamica in psicologia, nell’arte, in psicoterapia e nello sviluppo, Raffaello Cortina, Milano 2011.
5 Cfr. J.F. Lyotard, Discorso, figura (Unicopli, Milano 1989) e la rilettura offerta da Paolo Bertetto nel capitolo «L’immagine filmica e il figurale», in Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola (Bompiani, Milano 2007, pp. 182-201), e i suoi sviluppi nella ricerca di Philippe Dubois (si veda, in particolare, Au seuil du visible: la question du figural, in V. Innocenti, V. Re [a cura di], Limina. Le soglie del film, Forum, Udine 2004 [pp. 137-150]) riletta brillantemente da Enrico Carocci in La figura cinematografica e l’emozione, in G. Carluccio, F. Villa (a cura di), Il corpo del film, cit., pp. 151-160.
6 R. Bellour, Dispiegare le emozioni, cit., p. 116
7 Ibid., p. 136.
8 Ibid., p. 145.
9 Ibid., p. 137.
10 Ibid., p. 143.
11 Tale scoperta riguardò prima le scimmie macaco, poi, nel 1995, anche gli esseri umani. «Il gruppo di ricerca diretto da G. Rizzolatti ha rivoluzionato la conoscenza sulla corteccia premotoria scoprendo in quell’area due tipi di neuroni visuo-motori: i “neuroni canonici” e i “neuroni specchio”. Una caratteristica dei primi “è quella di essere attivati non solo immediatamente prima e durante l’esecuzione del movimento, ma anche quando il soggetto […] guarda gli oggetti. Abbiamo chiamato questi neuroni, situati nell’area F5, neuroni canonici. […] I neuroni specchio sono praticamente identici ai neuroni canonici: anch’essi si attivano quando [si] muove la mano per prendere un oggetto, anch’essi non inviano semplicemente comandi per fare contrarre i muscoli, ma piuttosto per uno “scopo” che richiede l’impiego coordinato di parecchi muscoli. Praticamente identici dal punto di vista motorio, questi neuroni si differenziano dai neuroni canonici in quanto non è la visione di un oggetto da afferrare ad attivarli, ma l’osservare un altro oggetto che compie un’azione. Non sono neuroni che “pianificano” un’azione, ma neuroni che “rispecchiano” un movimento: perciò li abbiamo chiamati neuroni specchio o, come ormai li chiamano tutti all’estero, mirror neurons” (Intervista di G. Rizzolatti, V. Gallese, L. Fadiga e L. Fogassi in P. Piazzano, Neuroni specchio, linguaggio e coscienza, L’intelligenza, “Le Scienze dossier”, 1, 1999, pp. 44-45).
12 D. Freedberg, V. Gallese, Movimento, emozione, empatia, «Prometeo», 103, settembre 2009, pp. 52-59.
13 «Parlo di simulazione “incarnata” per sottolineare il carattere inevitabile, automatico, non consapevole, prerazionale e non introspettivo di tale processo. Grazie all’attivazione di sistemi neuronali condivisi, che sono alla base di quello che noi facciamo e proviamo, si realizza una forma diretta di comprensione dell’esperienza altrui. Questo meccanismo modellante è la simulazione incarnata. Parallelamente alla descrizione sensoriale distaccata degli stimoli sociali osservati, vengono evocate nell’osservatore rappresentazioni interne degli stati corporei associati alle azioni, alle emozioni e alle sensazioni, come se l’osservatore stesso fosse l’attore di quelle azioni o provasse quelle emozioni e quelle sensazioni. I sistemi specchio sono probabilmente i correlati neuronali di questo meccanismo. Grazie alle reti neuronali condivise instanziate in due corpi fisicamente diversi, “l’altro oggettuale” diventa un altro sé. […] Parlo di simulazione “incarnata” – non solo perché essa è realizzata nel cervello, ma anche perché fa uso di un modello corporeo preesistente nel cervello, coinvolgendo così una forma non proposizionale di rappresentazione del sé che ci permette di fare esperienza di ciò di cui gli altri fanno esperienza» (V. Gallese, La molteplicità condivisa. Una conversazione con Vittorio Gallese, in T. Metzinger, Il tunnel dell’io: scienze della mente e mito del soggetto, Raffaello Cortina, Milano 2010, pp. 203, 204).
14 D. Freedberg, V. Gallese, Movimento, emozione, empatia, cit., p. 56.
15 A. Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1999, p. 9.
16 R. Bellour, Dispiegare le emozioni, cit., p. 121.
17 Cfr. Bellour che cita Stern: «Il bambino di Daniel Stern è lo spettatore cinematografico» (ibid., p. 127).
18 Cfr, D. Freedberg, V. Gallese, Movimento, emozione, empatia, cit., p. 55.
19 I film dei Dardenne potrebbero essere definiti “storie di camminate oppresse”, sulla scia del Neorealismo di Ladri di biciclette, ma senza alcuna compassione di favola chapliniana.
20 Ne L’Enfant (2005; Id.) e in Le Silence de Lorna (2008; Il matrimonio di Lorna) è trattato a livello diegetico il tema più esplicito della simulazione: cfr. la simulazione del matrimonio da parte delle rispettive protagoniste.
21 Tali corpi appaiono sempre nel contempo soggetto e oggetto delle storie raccontate: le due dimensioni si (con)fondono, poiché sono corpi puramente macchinali, eterodeterminati quelli che intervengono sulla materia (“che “compiono delle azioni”), mentre sono corpi pienamente umani quelli che subiscono le conseguenze viscerali dolorose di quegli atti che non sono i loro atti. A questo proposito, il corpo così presente ma (semi)invisibile del neonato de L’Enfant, privato di qualsiasi identità, appare come una figura sottilmente e potentemente simbolica del peso rappresentato dal corpo umano nella società rappresentata dai Dardenne. Egli è un oggetto di scambio, ed è “nutrito” dai corpicini di 40 bambini (più un pupazzo di lattice per le scene più pericolose…) che si sono succeduti durante le settimane di preparazione del film (il bambino doveva mantenere i nove giorni di vita attribuitigli nella finzione).
22 Nell’intervista «La Bataille des Dardenne», Arte France, Metropolis, DVD Rosetta/La Promesse, Keyfilms.
23 In modo complementare, il corpo si dà spesso come elemento strutturale, quasi di découpage. La prima parte de L’Enfant, quella che narra il “delitto” (prima del “castigo” e della “redenzione”), potrebbe essere suddivisa in quattro episodi: camminata della madre col bambino in braccio; passeggiata del padre col passeggino col bambino; camminata del padre col passeggino senza il bambino; fuga difensiva della madre (dal compagno) col passeggino col bambino.
24 Così, per esempio, ne L’Enfant la decisione di Bruno di vendere il neonato corrisponde a una marcia indietro subita dal passeggino all’interno del quadro: le decisioni morali ineriscono alla materia (sono una “question d’argent”).
25 A conferma di ciò, i Dardenne hanno efficacemente definito il piano liberatore finale di Bruno ne L’Enfant come un «ça pleure», atto non intenzionale, inconscio, non controllato dal soggetto («Casa del Cinema: Conferenza stampa L’Enfant», DVD L’Enfant, BiM).
26 Anche il montaggio partecipa profondamente della messa in scena del corpo di Rosetta, cosicché quest’ultimo appare, al tempo stesso, oggetto e soggetto ritmico dell’inquadratura.
27 Rosetta non fa che correre per tutto il film: la sua istintualità coatta è significata dall’angustia del quadro che limita costantemente – senza tuttavia attenuarla o tantomeno spegnerla – l’energia vitale del personaggio. In effetti, i film dei Dardenne sono, in un certo senso, racconti di “personaggi-bambini”, le cui azioni sono ispirate al gioco e caratterizzate da movimenti imprevedibili nei quali il corpo manifesta sempre il proprio linguaggio, a maggior ragione in presenza di quei limiti che tentano di oggettivarlo e di reprimerlo. Inoltre, tutte le relazioni personali sono incontri di corpi, nei quali la violenza è sempre più o meno presente: così anche i giochi selvaggiamente e fanciullescamente provocatori della coppia Bruno/Sonia ne L’Enfant (dopo il quasi stupro che in Rosetta inaugura il rapporto tra la protagonista e Riquet), o l’affettuosa aggressione di Cyril nei confronti della madre desiderata Samantha in Le Gamin au vélo (2011; Il ragazzo con la bicicletta). Questi corpi così sollecitati sono però tutt’altro che corpi “casuali”, essendo prodotti da numerosi ciak tesi a intensificare la “realtà” dei gesti attoriali.
28 Il corpo rappresentato in azione è sempre un corpo parziale, del quale si vedono dei particolari, come se tutta la sua identità risiedesse nel movimento e nei rapporti che instaura con i materiali fenomenici. La molteplicità di microazioni che costituisce il film dà luogo a una relazione globale nella misura in cui lo spettatore è in grado di collegare tale pluralità di frammenti micronarrativi in un processo unitario. Per esempio, in Le Fils (2002; Il figlio), viene riservata un’attenzione spasmodica ai particolari dei gesti del personaggio di Olivier. Così accanto ai suoi movimenti, e ai suoi sguardi, che rappresentano delle vere e proprie azioni, spinti come sono dal desiderio nei confronti del giovane Francis (l’assassino di suo figlio), la psicologia del personaggio è denotata (o connotata, il limite è sempre incerto nel cinema dei frères) dalla fenomenologia delle sue azioni minute “offerte” alla ricezione combinatoria dello spettatore.
29 Più in generale, le riprese dei percorsi del personaggio avvengono in prevalenza di spalle, per restituire il rischio continuo costituito da un ambiente imprevedibile e ostile e, al tempo stesso, la volontà della giovane di costruirsi il proprio avvenire. Si tratta però di una prospettiva inizialmente cieca: Rosetta impara solo progressivamente a vedere («Rosetta è cieca», hanno dichiarato i Dardenne, nell’intervista La Bataille des Dardenne, cit.).
30 Il corpo dei film dei Dardenne è un corpo “raccordato su se stesso” (in senso tecnico cinematografico). I suoi movimenti incessanti però svelano la volontà dei personaggi di uscire da tale condizione vicina all’autismo.
31 In effetti, Rosetta sembra applicare i principi del Neorealismo italiano individuati da André Bazin (cfr. Ladri di biciclette, in Che cosa è il cinema, cit., pp. 103-118): l’uomo che è più uomo perché trattato dalla mise en scène fenomenologicamente come un fatto, i poveri che devono derubarsi tra loro come circostanza rivelatrice di una società ingiusta da combattere, l’apparente casualità nella successione dei fatti (che in questo caso però appare più un elemento stilistico della mise en scène che non una “diabolica” organizzazione della sceneggiatura, anche perché, a differenza di Zavattini, i Dardenne si concentrano più sull’intensità fenomenologica dei piccoli avvenimenti piuttosto che su una loro concatenazione vertiginosa).
32 In tutta la filmografia dei Dardenne ricorrono spesso elementi puramente ritmici legati alle azioni e ai gesti dei personaggi: la ripetizione è così essa stessa un elemento fondamentale della mise en scène.
33 G. De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema (Pratiche, Parma 1993): cfr., in particolare, all’interno del capitolo «Michelangelo Antonioni e la pittura del secondo dopoguerra», i paragrafi «Materia e gesto nell’arte informale» (p. 202) e «Antonioni e l’Informale: il valore del “gesto”» (pp. 206-212).
34 Per una ricognizione del concetto di “aptico” nella teoria dell’arte e del cinema, con specifico riferimento all’emozione, cfr. G. Bruno, Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema, Bruno Mondadori, Milano 2006 (tit. or. Atlas of Emotion. Journeys in Art, Architecture, and Film, Verso, 2002): cfr., in particolare i paragrafi «Teorie aptiche: arte e cinema» (pp. 223, 226, 227), «Il tattilismo nella teoria cinematografica delle origini» (pp. 230-232), «La scienza e la misura delle nostre emozioni» (pp. 234-236), «Emozione» (pp. 236-237). Secondo la studiosa, che sviluppa un approccio storico-culturale, «il cinema diventa la memoria riproducibile della nostra visione cinestesica dello spazio, e dell’esplorazione tattile che inventa la storia intima della nostra sfera emozionale» (p. 217).
35 D. N. Stern, Le forme vitali, cit., p. 10.
36 Ibid., p. 6.
37 Ibid., p. 10.
38 Ivi.
39 Ibid., pp. 41-42.
40 L’articolo è apparso sulla rivista statunitense «Cognitive Neuropsychology», 21, 2005, pp. 1-25.
41 D. N. Stern, Le forme vitali, cit., p. 43.
42 Ibid., cit., p. 76.
43 Si pensi ad esempio alle pratiche della citazione, con le quali il cineasta cinefilo incorpora la propria visione spettatoriale all’interno della sua operazione registica, orientando così la narrazione in una direzione altra, che testimonia dell’incantamento ricevuto attraverso una sequenza o un frammento: non è un esempio efficace di simulazione (per immagini) riferita al “cosa” e al “come”? E, ancora, come reagisce uno spettatore (a sua volta) cinefilo nel ritrovare quella citazione ricontestualizzata, se non compiendo un’ulteriore simulazione (stavolta esclusivamente cerebrale) riferita allo stile e alle modalità mediante le quali il frammento citato si inscrive nel nuovo dispositivo narrativo?
44 D. N. Stern, Le forme vitali, cit., p. 6.