• OFFICINA LETTERARIA
  • 8 Novembre 2018

    L’immensità del frammento e l’eternità dell’attimo. Suggestioni del Japonisme nella cultura occidentale tra Ottocento e Novecento-parte quarta

      Alberto Panza

    Come epigrafe alla sua ultima serie rimasta incompiuta, Le cento vedute del Monte Fuji, Hokusai volle venisse stampata una particolarissima dedica: “Dall’età di sei anni ho la mania di cercare la forma delle cose e da cinquanta anni pubblico spesso disegni. In quello che ho raffigurato in questi settanta anni non c’è nulla degno di considerazione. 

     

    Solo ora a settantatré anni, comprendo in parte la vera figura e il carattere di uccelli, pesci e piante. Fino a ottanta anni farò progressi. A novanta potrò intravedere l’essenza di tutte le cose. A cento raggiungerò un alto grado di perfezione, e se vivrò fino a centodieci anni, tutto ciò che creerò, ogni punto e ogni tratto, vivrà. Se posso esprimere un desiderio, prego quelli di lor signori che godranno di una lunga vita, di controllare se quanto sostengo si rivelerà infondato. Dichiarato da Gakyo Rojin Manji”.

     Fig. 51 ridFig. 51. Vincent van Gogh, Iris (1889). Los Angeles, Getty Museum.

    Gakyo Rojin Manji, il vecchio pazzo per la pittura, è l’ultimo dei nomi assunti nel corso della sua lunga carriera, dai sei agli ottantanove anni, in cui cambiò sei volte il nome con cui firmava le opere a seconda dei vari periodi (in Giappone anche il nome è fluttuante). Noi lo conosciamo con il nome di Hokusai, che assunse quando divenne un pittore indipendente. Non ci possiamo meravigliare che un uomo tormentato come il povero van Gogh ammirasse tanto i pittori giapponesi, in cui vedeva l’esempio di una superiore saggezza e di quella pacificazione della mente che inseguì invano per tutta la vita. Vincent van Gogh era incantato dagli elegantissimi iris dipinti da Hokusai e, quando era ricoverato nel manicomio di Saint-Rémy-de-Provence, si aggrappò disperatamente agli stessi fiori che vedeva crescere nel cortile dell’Istituto (fig.51), descrivendoli in una lettera a Théo come “uno studio pieno di aria e di vita”. Claude Monet, che pur avendo dieci anni più di Vincent gli sopravvisse per trentacinque anni, quando vide questo quadro in una mostra dichiarò: “Come poteva l’uomo che ha dipinto questi quadri essere così infelice?”.  Anche per Monet i giapponesi erano grandi maestri di vita, oltre che di pittura. Non si limitò a dipingere gli iris in numerosissime versioni (fig. 52), ma ne fece uno dei protagonisti del suo hortus conclusus di Giverny, in cui si ritirò negli ultimi due decenni della sua lunga vita. Le pareti della casa di Giverny sono letteralmente ricoperte, in tutti gli ambienti da centinaia di stampe giapponesi, ha proposito delle quali diceva: “La raffinatezza del loro gusto mi ha sempre incantato e condivido interamente le implicazioni di fondo che le ispira: evocare una presenza attraverso un’ombra, il tutto attraverso un frammento”.

    Fig. 52
    Fig. 52. Claude Monet, Iris (1914-17), Paris, Musée d’Orsay.

    Monet consacrò le sue giornate al giardino, fonte permanente di ispirazione, e soprattutto alla estensione del giardino, il parterre d’eau attraversato da un ponte giapponese e popolato dalle ninfee (fig.53), che negli ultimi venticinque anni della sua vita divennero il soggetto prima dominante e poi esclusivo della sua pittura. 
    Noi le chiamiamo ninfee, Monet usava il termine paysages d’eau, dipinti in oltre duecentocinquanta redazioni, oltre a innumerevoli acquerelli e bozzetti, in diversi formati fino ad approdare a un non-formato. Negli anni venti fece realizzare a Giverny un atelier apposito (fig.54) per quelle che, in mancanza di meglio, vennero chiamate grands décorations: non erano più propriamente quadri, ma oltre novanta metri di superfici pittoriche in cui non c’è un inizio o una fine ma un continuum ininterrotto, una specie di gigantesco makemono che potrebbe srotolarsi all’infinito. Questi paysages d’eau sono il punto d’arrivo di tutto il suo percorso artistico: Monet passa dalle caratteristiche della stagione, a quelle della giornata, a quelle dell’ora, fino ad arrivare all’attimo, alle minime variazioni di colore di una nuvola riflessa dall’acqua.

    Fig. 53
    Fig. 53. Giverny, stagno delle ninfee


    Fig. 54
    Fig. 54. Monet nell’atelier delle ninfee, Giverny (1922)

    Possiamo affidarci ancora una volta ad un altro grande viaggiatore nel tempo, Marcel Proust che, nel primo volume del suo romanzo ci presenta il Narratore che, nel corso di una passeggiata lungo il fiume Vivonne, si imbatte in un luogo particolare:: "Ma più lontano il fiume rallenta il suo corso, percorre una tenuta il cui accesso era aperto al pubblico da colui che la possedeva e che si era dilettato in lavori di orticoltura acquatica, facendo fiorire (fig.55), nei piccoli stagni formati dalla Vivonne, dei veri giardini di ninfee. Dal momento che le sponde erano assai boscose in quel punto (fig.56), le grandi ombre degli alberi davano all'acqua un fondo che era abitualmente d'un verde cupo ma che a volte (fig.57) quando si rientrava in certe sere rasserenante dopo pomeriggi tempestosi, ho visto farsi di un azzurro chiaro e crudo, come uno smalto di gusto giapponese. Qua e là, alla superficie (fig.58), rosseggiava come una fragola un fiore di ninfea dal cuore scarlatto, bianco sui bordi (...)  si sarebbero detti delle viole del pensiero venute a posare, come farfalle le ali bluastre e lucenti sull'obliquità trasparente di quell'aiuola acquatica; di quell'aiuola celeste anzi: perché essa dava ai fiori un suolo d'un colore più prezioso e più commovente del colore dei fiori stessi, e sia che durante il pomeriggio (fig.59) facesse scintillare sotto le ninfee il caleidoscopio di una felicità attenta, mobile e silenziosa, sia che verso sera (fig.60) come qualche porto lontano, si riempisse del colore e dei sogni del tramonto, cambiando incessantemente (fig.61) per restare sempre in accordo intorno alle corolle dalle tinte più fisse con quel che c'è nell'ora di più profondo, di più fuggitivo, di più misterioso  con quel che c'è in essa di infinito, pareva averle fatte fiorire in pieno cielo".

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    Fig. 55. Claude Monet, Ninfee (1920-26). Paris, Musée de l’Orangerie.


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    Fig. 56. Claude Monet, Ninfee (1920-26). Paris, Musée de l’Orangerie.


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    Fig. 57. Claude Monet, Ninfee (1920-26). Paris, Musée de l’Orangerie.

     Fig. 59 ridFig. 58. Claude Monet, Ninfee (1920-26). Paris, Musée de l’Orangerie.


    Fig. 59 ridFig. 59. Claude Monet, Ninfee (1920-26). Paris, Musée de l’Orangerie.

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    Fig. 60. Claude Monet, Ninfee (1920-26). Paris, Musée de l’Orangerie.

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    Fig. 61. Claude Monet, Ninfee (1920-26). Paris, Musée de l’Orangerie.

    Con i paysages d’eau Monet coglie alcune delle suggestioni più profonde del japonisme, fa sua l’arte raffinata di cogliere il momento, di seguirlo nelle sue incessanti variazioni, finché dura, senza presunzione di assolutezza. Ma sono momenti di tale pienezza e intensità da durare indefinitamente: appunto, l’immensità del frammento e l’eternità dell’attimo.