L’immensità del frammento e l’eternità dell’attimo. Suggestioni del Japonisme nella cultura occidentale tra Ottocento e Novecento-parte terza
Nell’arte del dettaglio è fondamentale il rapporto tra pieno e vuoto, con una netta prevalenza del vuoto. Noi ci sforziamo di accumulare, di aggiungere, di riempire, ma la cosa più difficile è fare spazio al vuoto, sia nella meditazione che in pittura.
Un motto Zen dice che la vera bellezza, la può scoprire solo chi ha mentalmente integrato l’incompleto: se l’immagine dice tutto non c’è più nessuno spazio per chi guarda, altrimenti il cosiddetto fruitore non fruisce nulla, si limita ad una adesione passiva. Inoltre concentrarsi su un semplice dettaglio permette di raggiungere una grande intensità espressiva.
Tutti i grandi maestri dell’Ukiyo-e non ritenevano disdicevole dedicarsi a studiare composizioni adatte ai ventagli, data la non distinzione, propria dello spirito giapponese, tra oggetti d’arte e oggetti d’uso). In una di queste composizioni, di straordinaria eleganza, Hiroshige esprime lo spirito della stagione autunnale attraverso un solo ramo di crisantemo, che si staglia contro una candida luna (fig.26).
Fig. 26. Utagawa Hiroshige, Autunno. Stampa dalla serie Disposizioni di fiori delle stagioni (1833-35)
A volte basta un solo stelo, un fiore o un insetto, come in un foglio tratto da un album di inchiostri di Hokusai (fig. 27): con una disposizione asimmetrica sulla destra viene raffigurata una pianta di iris, con tre fiori, uno completamente aperto, l’altro non ancora del tutto dischiuso, il terzo in boccio. Tutta la parte sinistra è occupata da un grande vuoto, attraversato solo dal fragile ponte di una foglia che si incurva sotto il peso di un insetto.
Fig. 27. Katsushika Hokusai, Iris e insetto. Inchiostro su carta (1810-20).
Da questo punto di vista non c’è una gerarchia di importanza tra i fenomeni o le diverse forme dell’esistente. Hokusai tornò sul soggetto prediletto della “montagna senza pari”, il Fuji-san, negli ultimi anni della sua vita, con le cento vedute del monte realizzate a incisione in toni di grigio su carta.
In una di queste tavole (fig.28) la forma purissima ed essenziale della montagna sacra, lasciata completamente in bianco, è vista attraverso una tela di ragno, in cui è rimasta presa una foglia d’acero evocativa dell’autunno. E’ una sorta di ‘invenzione a due voci’: il minuscolo e il gigantesco, l’esilissima trama e la forma compatta, quanto c’è di più momentaneo ed effimero messo a confronto con il duraturo.
Fig. 28. Katsushika Hokusai, Il Monte Fuji attraverso una ragnatela. Stampa dalla serie Cento vedute del Monte Fuji (1860-1870)
Il Fuji-san si staglia in trasparenza, come una grande ombra chiara, come se fosse un grande saggio che osserva da lontano, nella sua sconfinata sapienza, le illusioni degli esseri di questo mondo. Soltanto nella concentrazione sul momento e sul dettaglio troviamo il contatto con stati emotivi fugaci ma intensi e profondi, mentre le grandi sintesi concettuali, i sistemi teorici sulla storia o sulla vita sono sempre in qualche modo artificiosi. Lo aveva capito molto bene van Gogh, che scrive a Théo da Arles, il 24 settembre 1888: “Studiando l’arte giapponese si vede un uomo indiscutibilmente saggio, filosofo e intelligente, che passa il suo tempo a far che? A studiare la distanza tra la terra e la luna? No. A studiare la politica di Bismarck? No, a studiare un unico filo d’erba. Ma quest’unico filo d’erba lo conduce a disegnare tutte le piante, e poi le stagioni e le grandi vie del paesaggio, e infine gli animali e poi la figura umana. Così passa la sua vita e la sua vita è troppo breve per arrivare a tutto.”
Appena arrivato a Parigi, nel 1886 con la sua insaziabile curiosità, van Gogh aveva scoperto le opere di Hokusai e Hiroshige, esposte da Samuel Bing, e tormentava il fratello perché comprasse sempre nuove stampe, nella convinzione, peraltro esatta, che avrebbero avuto un grande valore in futuro. In una lettera alla sorella Wilhelmine, nel settembre 1888, scrive: “Ti puoi fare un’idea del cambiamento nella pittura pensando alle rappresentazioni giapponesi, ai paesaggi e alle figure che si vedono dappertutto. Io e Theo possediamo centinaia di stampe”.
Quando si trasferì ad Arles si raccomandava in una lettera a Théo di non vendere nulla (difatti il museo di Amsterdam possiede una raccolta di più di quattrocento stampe): “Ma ti prego, conserva la raccolta di Bing. I vantaggi sono troppo grandi. In quanto a soldi, ho perduto più che guadagnato, e va bene, ma intanto ho avuto la possibilità di vedere molte stampe con tranquillità e a lungo. Il tuo appartamento non sarebbe quello che è senza le stampe (…) e tutto il mio lavoro si basa sul japonisme”.
Non era un modo di dire: con la diffusione del gusto japoniste, molte riviste cominciarono a riprodurre immagini, come la Geisha di Keisai Eisen (fig.29) messa in copertina dal Paris Illustré nel 1886. L’anno successivo van Gogh riprende l’immagine di Eisen (fig. 30), facendo risaltare la donna contro un giallo intenso, che rialza i toni di verde e rosso, sperimenta quell’accostamento intenso dei colori primari con cui dipingerà i suoi capolavori di Arles, mentre l’ambientazione in un giardino acquatico con ninfee e bambù è ripresa da altre stampe.
Fig. 29. Copertina della rivista Paris illustré. Le Japon, vol.4, nn. 45-46, maggio 1886.
Fig. 30. Vincent van Gogh, Oiran (1887). Amsterdam, van Gogh Museum.
La sua ammirazione arriva ai limiti dell’identificazione: si dedica a riprodurre, con reverente cura, le opere dei maestri dell’Ukiyo-e, come Pioggia sul ponte di Oashi (fig.31) e Fioritura nel giardino di Kameido di Hiroshige (fig.32).
Fig. 31. (sinistra), Utagawa Hiroshige, Pioggia sul ponte di Oashi dalla serie Cento vedute di Edo (1857); (destra), Vincent van Gogh, Ponte sotto la pioggia (1887). Amsterdam, van Gogh Museum
Fig. 32. (A sinistra), Utagawa Hiroshige, Fioritura nel giardino di Kameido. Dalla serie Cento vedute di Edo (1857); (a destra), Vincent van Gogh, Susini in fiore (1887). Amsterdam, van Gogh Museum.
Nello stesso anno 1887 decide di rendere omaggio a Jules Tanguy, proprietario di una bottega di colori a Montmartre, un uomo generoso, di idee socialiste, che aiutava i pittori in difficoltà ed esponeva nella vetrina del suo negozietto quadri che nessuno voleva, come quelli di van Gogh o Lautrec. Vincent lo rappresenta come una specie di icona (fig.33), circondato da un’aureola di stampe giapponesi.
Fig. 33. Vincent van Gogh, Le père Tanguy (1887). Paris, Musée Rodin.
Per van Gogh la pittura giapponese non era soltanto un prontuario di nuove suggestioni visive, ma un esempio che aveva un valore etico, un modello di vita e di pensiero. Scrive a Théo nel settembre 1888: “Ma insomma, non è quasi una religione quella che ci insegnano questi giapponesi così semplici e che vivono in mezzo alla natura come se fossero essi stessi dei fiori? E non è possibile studiare l’arte giapponese senza diventare più sereni e senza tornare alla nostra natura, nonostante la nostra educazione e il nostro lavoro nel mondo delle convenzioni”.
Comincia così ad accarezzare il progetto di dar vita a una comunità di artisti che operasse fuori del mercato, sul modello dei monaci-pittori giapponesi, con l’intento di assistere i pittori poveri e di dare vita a una generazione futura di artisti il cui compito fosse quello non di creare opere per i musei o i mercanti, ma quello di testimoniare la vita nelle sue diverse manifestazioni. Nel febbraio del 1888, Vincent lascia Parigi, dove aveva dipinto più di duecento quadri in due anni e si trasferisce ad Arles, inseguendo questo suo ideale che descrive, in una lettera a Gauguin, in questi termini: “Come che sia, quando ho lasciato Parigi profondamente afflitto, malato e quasi alcolizzato, a forza di alzare il gomito quando sentivo le forze abbandonarmi, allora mi sono chiuso in me stesso, senza osare ancora sperare. Al presente, nell'ipotesi d'un orizzonte, ecco che mi ritorna la speranza, questa speranza ad eclisse che, nella mia vita solitaria, mi ha talvolta consolato. Io credo allora che anche voi vi sentirete relativamente consolato dei disagi presenti, delle difficoltà e della malattia, considerando che probabilmente noi daremo le nostre vite per una generazione di pittori che durerà ancora per molto tempo”.
Fig. 34. Vincent van Gogh, Frutteto con albicocchi in fiore (1888). Amsterdam, van Gogh Museum.
E ad Arles, almeno all’inizio, succede veramente un miracolo: nella luce smagliante di quella primavera provenzale il mondo sembra veramente risplendere (fig.34): “Je me sens au Japon”, scrive a Théo e lo ribadisce in quasi tutte le lettere, come in quella in cui descrive il quadro Le pont de Langlois (fig.35): “Il paesaggio mi sembra bello come il Giappone, per la limpidezza dell’atmosfera e gli effetti di colore gioioso.Le acque hanno delle tachesdi un bello smeraldo e di un ricco blu, come vediamo nei dipinti su seta”.
Fig. 35. Vincent van Gogh, Le pont de Langlois (1888). Otterlo, Kroller-Müller Museum.
La riapparizione della sua speranza ad eclisse si esprime nella immagine emblematica del Seminatore (fig.36), in cui l’albero obliquo che emette nuovi germogli è una citazione diretta di una stampa di Hokusai.
Fig. 36. Vincemt van Gogh, Le semeur au coucher du soleil (1888). Zurigo, Fondazione Bührle.
Tutto preso dal suo progetto, invia a Gauguin un autoritratto (fig. 37) in cui si raffigura, come scrive nella sua lettera di accompagnamento, come un bonzo, come se il suo stesso aspetto dovesse giapponesizzarsi per fornire una prova del suo impegno morale.
Fig. 37. Vincent van Gogh, Autoritratto dedicato a Gauguin (1888). Harvard, Fogg Art Museum.
Gauguin gli risponde con un proprio autoritratto (fig.38), comprendente anche la figura di Emile Bernard, che avrebbe dovuto condividere l’avventura dell’Atelier du Midi, in cui scrive, come didascalia, Les miserables, allusione ad uno degli autori prediletti da Vincent ma che la dice lunga sul modo in cui lui considerava questo sodalizio, che di fatto durò solo due mesi, dall’ottobre al dicembre del 1888.
Fig. 38. Paul Gauguin, Autoritratto dedicato a van Gogh (1888). Amsterdam, van Gogh Museum.
Il drammatico epilogo della vicenda, su cui abbiamo soltanto la versione di Gauguin, avvenne la notte della vigilia di Natale. Gauguin racconta che, camminando sulla Place Lamartine, sente dei passi rapidi dietro di lui, si volta e vede Vincent stralunato che lo fissa e gli chiede bruscamente: “Allora parti?”. Gauguin si limita ad annuire e va a passare la notte in un albergo.
Quando torna la mattina dopo nella loro casa-atelier per riprendere le sue cose, trova la polizia nella casa piena di sangue. Come è noto, Vincent aveva reagito alla prospettiva dell’abbandono con il suo atto di autolesionismo, il taglio dell’orecchio. La partenza di Gauguin significava il definitivo tramonto della fase ‘solare’ di Arles: sullo sfondo dell’autoritratto eseguito nei giorni immediatamente successivi al gesto (fig.39), van Gogh pone sulla parete una stampa giapponese, in palese corrispondenza con la fasciatura della ferita, alludendo alla vanificazione del progetto di portare il Giappone in Provenza.
Fig. 39. Vincent van Gogh, Autoritratto con orecchio fasciato (1889). Londra, Courtauld Institut.
Forse van Gogh è stato quello che ha colto più in profondità le suggestioni dell’arte giapponese, anche rispetto al concetto di paesaggio emotivo. Con lui giunge a compimento una tendenza iniziata dagli impressionisti: allontanarsi da una concezione del paesaggio di tipo documentario e vedutistico per arrivare ad una visione in cui la Stimmung, l’atmosfera emotiva che unisce paesaggio e spettatore, è più importante della descrizione dettagliata e naturalistica.
Anche in questo mutamento dal paesaggio descrittivo al paesaggio emotivo, il japonisme svolge un ruolo fondamentale.
Uno dei generi maggiormente trattati nelle stampe dell’Ukiyo-e si chiama Meisho-e, ovvero immagini dei luoghi famosi, come la serie delle Trentasei vedute del Monte Fuji di Hokusai o i Luoghi celebri delle sessanta provincie di Hiroshige. Ma anche in questo caso non si tratta di cartoline illustrate: basta guardare l’incanto da cui è preso un piccolo pescatore, in una delle vedute di Hokusai (fig.40), che ha deposto la cesta e suona il flauto, rapito dalla visione del sacro monte.
Fig. 40. Katsushika Hokusai, Il piccolo pescatore. Stampa aggiunta alla serie Le Trentasei vedute del monte Fuji (1826-33)
Lo spettacolo del mondo e delle cose del mondo non è qualcosa di separato da colui che osserva, per cui il viaggio lungo le vie che attraversano il Giappone, nelle stampe dell’Ukiyo-e, diventa una metafora del percorso dell’esistenza, con i suoi momenti sereni o quieti e con i passaggi incerti e difficili, cui allude il Ponte sopra le nuvole ad Ashikaga (fig. 41), oppure il mutare delle condizioni metereologiche, che si associa alle fluttuazioni del tempo psicologico umano.
Fig. 41. Katsushika Hokusai, Il ponte sopra le nuvole ad Ashikaga. Dalla serie Vedute insolite di famosi ponti giapponesi (1833-34).
Così la pioggia che ci sorprende all’improvviso lungo la strada in Hiroshige (fig.42) o il colpo di vento, nella straordinaria versione che ne dà Hokusai in una delle Trentasei vedute del Monte Fuji (fig.43).
Fig. 42. Utagawa Hiroshige, Shono. Stampa dalla serie Le cinquantatré stazioni del Tokaido (1833-34).
Fig. 43. Katsushika Hokusai, Ejiri nella provincia di Suruga. Dalle Trentasei vedute del Monte Fuji (1830-32).
Folate di pioggia o folate di vento, il senso simbolico è sempre lo stesso: quello che ci coglie impreparati lungo il cammino e manda all’aria, letteralmente, come i fogli o i cappelli che volano, il nostro assetto abituale.
La dizione “luoghi famosi” non va intesa come luoghi alla moda, ma indica quei punti del paesaggio in cui la natura, che è sempre carica di risonanze profonde per la psiche umana, si manifesta in tutta la sua potenza e con la sua forza di suggestione. Una originalissima serie di Hiroshige è dedicata ai luoghi da cui contemplare la luna e, contestualmente, contemplare l’esistenza.
Nella Luna attraverso le foglie d’acero (fig.44) viene raffigurato uno sperone roccioso da cui precipita una cascata, una splendida immagine, di grande arditezza compositiva, accentuata dal formato verticale. Il flusso d’acqua è illuminato di luce argentea dalla luna che si intravede attraverso il ramo di un acero che si protende nel vuoto, da cui si staccano le foglie che seguono il destino delle acque che precipitano in basso. La tonalità emotiva di base, la ‘musica di sottofondo’ di questa immagine, è rinforzata dalla poesia allegata, che recita: “Le foglie d’autunno cadono sul verde muschio/E il gelido vento della sera avvolge il cielo”.
Fig. 44, Utagawa Hiroshige, La luna attraverso le foglie d’acero dalla serieVentotto vedute della luna (1832).
Gli ultimi paesaggi nevosi di Hiroshige sono pervasi da una malinconia sempre più accentuata, che echeggia anche nelle brevi composizioni poetiche che univa alle immagini.
Una meravigliosa composizione dominata dai colori del bianco e del bruno (fig.45) raffigura l’attraversamento di un passo montuoso lungo il Kisokaido, la via che univa Edo a Kyoto. Anche in questo caso vibra una corrispondenza profonda tra l’immagine e la poesia che la accompagna: “Ciò che si usa dire a proposito delle nuvole/vale anche per gli uomini./Appena si inizia a percorrere un sentiero di montagna/Sopraggiunge la notte”.
Fig. 45. Utagawa Hiroshige, Oi. Dalla serie Le sessantanove stazioni del Kisokaido (1838-1842).
“Ed è subito sera”, scrisse Quasimodo quando, nel 1930, decise di ridurre i diciannove versi di una poesia intitolata Solitudine a soli tre versi, sotto l’influsso degli haiku giapponesi.
Lo spettacolo naturale si accorda dunque intimamente con il sentire umano nelle sue varie sfumature, Roccia ed acqua, ad esempio, sono frequentemente associati in contrasto (fig.46), come evocazione dello Yin e dello Yang.
Fig. 46. Ogata Korin, Onde a Matsushima, (fine XVIII sec.). Boston, Fine Arts Museum.
Permanenza e impermanenza, continuità e discontinuità, durata e trasformazione si fronteggiano eternamente: lo scoglio è più forte dell’acqua ma, alla lunga, l’acqua è più forte dello scoglio.
La potenza delle onde marine è uno dei grandi temi che ricorre nelle opere dei maestri dell’Ukiyo-e. Hiroshige realizzò una serie di venti stampe sul tema della Lotta tra le montagne e i mari, in cui ricorre la raffigurazione dei luoghi in cui il mare si manifestava in tutta la sua temibile potenza, come nel golfo di Naruto (fig.47), in cui un gioco di correnti produce dei vortici del diametro di decine di metri.
Fig. 47. Utagawa Hiroshige, I gorghi di Naruto. Dalla serie Luoghi celebri delle sessanta province (1855).
Il mare è il luogo di tutte le avventure, ma anche di tutti i naufragi: la caratteristica di Hokusai è quella di aver introdotto, accanto al tema della eterna lotta tra gli elementi, anche il dramma umano, come si può vedere in quella che possiamo considerare, in assoluto, l’opera giapponese più celebre in tutto il mondo, La grande onda presso Kanagawa (fig.48), dalla raccolta Le trentasei vedute del Monte Fuji.
Fig. 48. Katsushika Hokusai, La grande onda presso Kanagawa. Dalla serie Le trentasei vedute del Monte Fuji 1830-32).
Il sacro monte compare in fondo come un faro, un punto di orientamento nella lotta che i naviganti stanno sostenendo con la più imponente, la più poderosa onda che sia mai stata dipinta. La montagna di pietra è stabile, calma e rassicurante, la montagna d’acqua è prorompente e aggressiva, sembra l’artiglio di un drago pronto a ghermire i naviganti che si affannano ai remi per sostenerne l’impatto potenzialmente devastante. Questa stampa fa venire in mente le parole pronunciate dall’imperatore Hiroito dopo l’immane catastrofe che segnò la fine della seconda guerra mondiale in Giappone: “Tutti gli uomini sono fratelli, come il mare che bagna tutto il mondo; quindi perché il vento e le onde si scagliano con violenza dovunque?”.
In quest’opera straordinaria il senso profondo del fenomeno naturale, l‘arcana potenza primordiale del mare, si coniuga con un elevato ed elegantissimo grado di astrazione, che ne ha fatto un prototipo insuperato e l’emblema stesso del Japonisme.
Se osserviamo una fotografia del 1910 che raffigura Debussy in compagnia di Stravinskij (fig.49), possiamo osservare, sulla parete dello studio del musicista francese, due stampe giapponesi, un ritratto femminile di Utamaro e La grande onda, che Debussy volle riprodotta sulla partitura dei Trois esquisses symphoniques, intitolati, appunto, La mer (fig.50).
Fig. 49. Debussy e Stravinskij (1910)
Fig. 50. Frontespizio de La Mer, ed. Durand (1905)